domenica 19 agosto 2018

Il senso della vita (e della morte)

Un tempo, nelle giornate di lutto nazionale, tutto si fermava: le serrande si abbassavano, tacevano i programmi radiofonici e televisivi e le emittenti trasmettevano solo notiziari ed, eventualmente, musica sinfonica e requiem.
A ciascuno, soprattutto ai più giovani, appariva chiaramente che, di fronte alla morte, bisognava fermarsi, tacere, meditare, proprio per cogliere il senso dell'inadeguatezza, della fragilità, della precarietà dell'essere umano che proprio così poteva apprezzare ancora di più la grandezza e il valore della vita.
Poi tutto è cambiato. E non è stato solo colpa della diffusa laicizzazione. Perché si può anche non credere o non praticare una fede religiosa ma osservare una legge morale che impedisca di seguire solo il proprio interesse personale ritenendosi onnipotenti. L'onnipotenza non è dell'essere umano, anche se c'è chi è convinto del contrario. 
E di fronte all'imponderabilità della vita e della morte, gli essere umani non possono fare altro, come suggerisce Leopardi ne "La ginestra", che stringersi insieme in una "social catena" che permetta di affrontare le difficoltà e i lutti che la vita porta inevitabilmente con sé. 
Solo affrontando la morte, ammettendone l'esistenza e non negandola o decidendo di ignorarla, si può gustare e apprezzare davvero il senso della vita.


" [...] Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede."
(Giacomo Leopardi: "La ginestra o il fiore del deserto", vv. 145 - 157)

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