mercoledì 25 luglio 2018

Ripartire dall'essenziale

"Mi domando: [...] (i miei figli) sapranno che fare quando si troveranno al buio? Capiranno da dove può arrivare la luce della salvezza, da quale parte guardare? Ecco quello che dovremmo chiederci, noi genitori: se il nostro tempo sta lasciando loro qualcosa, se stiamo trasmettendo un patrimonio morale. Per riconquistare i nostri figli è da qui che dobbiamo ripartire: dall'essenziale." (Antonio Polito: "Riprendiamoci i nostri figli - La solitudine dei padri e la generazione senza eredità", Marsilio - Nodi, Venezia, 2017, Pagina 173)

martedì 24 luglio 2018

"Tutta colpa dei genitori"

Pubblicato da Mondadori nell'ottobre 2010, "Tutta colpa dei genitori" è il terzo libro scritto dall'ottima collega Antonella Landi, conosciuta nel periodo in cui insegnò nella bergamasca.
E' possibile ascoltare la presentazione del testo, sempre attualissimo, cliccando il link indicato. Particolarmente interessante la lettura dei brani dedicati allo studente insolente (pagine 130 - 132 del testo).




domenica 22 luglio 2018

L'ultimo baluardo


Sempre più spesso, psicologi e pedagogisti invitano la scuola a resistere come ultimo baluardo contro una società sempre più sfaccettata che si nutre di false illusioni, di arroganza, di ignoranza, di certezze assolute mirate a raccogliere il consenso di chi, sempre meno, è abituato a pensare.
E la scuola degli insegnanti che nella scuola credono davvero cerca di resistere, nonostante tutto, incoraggiando gli studenti a discutere, a pensare, ad ascoltare, a non dar mai nulla per scontato, a non credere a tutto ciò che viene detto prima di averlo analizzato, confrontato, approfondito.
Tocca alla scuola il compito di resistere, nonostante tutto, anche valorizzando attraverso una didattica delle emozioni, l'attività in classe.
Contro l'analfabetismo emotivo, Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli con il format Didattica delle emozioni propongono per la scuola una serie di obiettivi:
una scuola che, prima di insegnare, educhi
- prima di informare, formi
  - che, prima di integrare, interagisca
 - che, prima di diventare tecnologica, si apra alla modernità 
 - che, prima di accogliere e rispettare, si faccia rispettare
 - che, prima di cadere nella trappola del buonismo, sappia mettere regole, limiti e confini       
 - che, prima di trasformarsi in un contenitore sterile, sia luogo di studio, impegno e passioni 
 - che, prima di essere derubata di ogni risorsa, sia spazio sacro e da proteggere
 - che, prima di invitarli a ripetere la lezione, aiuti i giovani a narrarsi
 - che, ancora prima delle lettere e dei numeri, recuperi codici di linguaggio emozionale.

Soltanto così, unendo il passato al futuro, la scuola può dare senso e avere senso.

(Citazioni tratte dal testo di Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli: Intelligenza emotiva a scuola - Percorso formativo per l'intervento con gli alunni, Erickson, Trento, 2012, pagine 129 - 130)


Contro l’analfabetismo emotivo:
la che, prima di insegnare, educhi

 prima di informare, formi

che, prima di integrare, interagisca


che, prima di diventare tecnologica, si apra alla modernità



giovedì 19 luglio 2018

Emozioni in musica

Ha una melodia accattivante, che evoca le emozioni tipicamente adolescenziali di amori estivi, intensi e fugaci, destinati a spegnersi al primo colpo di vento. Ascoltarla significa tornare indietro di quarant'anni, quando i sentimenti travolgenti sembravano dominare su tutto e tutti, anche quando erano insignificanti. E non importa se si hanno quasi sessant'anni. Si torna giovanissimi, travolti da parole e musica che sembrano quelle dell'adolescenza lontana eppure mai così vicina.








Che super taglio di capelli che hai
Potresti vincere tutto
Dobbiamo fare adesso subito qua
Una foto che spacca
E le favole e le corse
E le storie con gli effetti e le bugie
L’hai dette prima a me
Lo sai siamo sospesi in un vecchio spot dove allo specchio tu canti con il phon
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se, cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
Da sola in the night
(In the night)
Che super pelle, che profumo che hai
Mi mandi fuori di testa
Le tue magliette bianche dentro quei jeans
Sono una cosa perfetta
E le favole e le corse
E le storie con gli effetti e le bugie
L’hai dette prima a me
Lo sai che non mi passa
Dal primo bacio a scuola ad occhi chiusi
Come lo vorrei ora
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
Da sola in the night
(In the night)
Da sola in the night
(In the night)
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
(In the night
Da sola
In the night
Da sola in the night
In the night)
Compositori: Alessandro Merli / Davide Petrella / Fabio Clemente / Tommaso Paradiso
Testo di Da sola / In the night © Universal Music Publishing Group

domenica 15 luglio 2018

Condizione e cultura giovanile nella società e nella scuola: riflessioni e considerazioni.

Il relativismo imperante della società italiana contemporanea e l’omologazione massmediatica dei modelli di riferimento rendono sempre più difficoltoso il compito educativo.
Adulti e giovani si trovano, inoltre, spesso sommersi da una valanga di informazioni che travolgono e quasi sempre sovrastano quelle che tradizionalmente vengono trasmesse nelle aule scolastiche.

Accade così che i nostri adolescenti, con cui quotidianamente, come docenti, entriamo in contatto, appaiano lontani, apatici, annoiati di fronte a una “cultura dei libri” che non riconoscono come propria, distante anni-luce da quella che considerano la loro cultura.

La scuola viene spesso vissuta dagli adolescenti con disagio, quel disagio che nasce dalla difficoltà di capire il senso, il valore dei contenuti proposti, in un contesto sociale che dà importanza solo all’apparenza e al denaro. In un’età difficile qual è quella che va dai 13 ai 18 anni, molti finiscono per perdersi, per omologarsi al modello dello studente che non studia ma trascorre le ore scolastiche aspettando l’intervallo o scrivendo sul diario pensieri o slogan che esprimano il proprio mondo interiore, più o meno complesso.

Nelle classi dell’Istituto Professionale (ma succede anche negli altri indirizzi di studio della scuola secondaria superiore) presso cui attualmente insegno Italiano e Storia, capita spesso di trovarsi di fronte alunni così, che ritengono inutile lo studio di alcune materie perché “Il tornio gira anche senza Dante”, come ha esclamato qualche mese fa un mio studente.

La sfida allora, cui i docenti sono chiamati, è quella di aiutare i nostri ragazzi a comprendere che il ruolo della scuola non è quello informativo (in cui al momento risulterebbe perdente, visto il bombardamento di informazioni, per lo più non mediate, cui i nostri giovani sono sottoposti), ma formativo.

La scuola deve offrire a tutti la possibilità di formarsi innanzi tutto come esseri umani, uomini e donne che vivono, amano, pensano con la propria testa,  cittadini responsabili e non solo e unicamente lavoratori.

La scuola, attraverso l’attività dei docenti, può e deve fornire modelli alternativi a quelli imperanti, trasmettendo il gusto per le emozioni vere (e non quelle ad esempio, mediate dall’uso di sostanze stupefacenti, sempre più diffuse, ahimè, tra le nostre giovani generazioni); insegnando a guardarsi dentro e a capire chi si è e ciò che si vuole veramente, senza farsi trascinare per noia o debolezza dalle cosiddette “cattive compagnie”.

In fondo, poi, chi sarebbero le “cattive compagnie”? Dovremmo chiedercelo, noi adulti, e spiegarlo anche ai nostri ragazzi: le “cattive compagnie” sono date dall’unione di chi si è perso, facendosi schiacciare e travolgere da modelli falsi, dai falsi valori imperanti, seguendo la logica del “tutto e subito” o del “perché no?” che ci circonda.

Così, se lo scopo è apparire, “avere”, piuttosto che “essere”, nulla più ha senso, nulla più è sacro. Ugualmente, chi ha ancora speranze, sogni, progetti, teme di essere un alieno, un “non adatto”.

Questo non si riferisce a tutti, naturalmente. Ci sono giovani, ragazzi e ragazze, che si dedicano ad attività di volontariato di diverso tipo, attività di cui vanno fieri, o che sono solidali con i loro compagni aiutandoli a fare i compiti o coinvolgendoli nei loro hobby.



I nostri ragazzi hanno bisogno di credere. Hanno bisogno di una società adulta che dia loro delle regole certe. Che dia loro una speranza per un futuro che sembra già perduto.

“Ai suoi tempi era diverso, era tutto più certo” mi è stato detto dai miei studenti di quarta, nel momento in cui li invitavo a studiare per sé stessi, per il gusto di imparare e, magari, anche per realizzare i propri progetti, i propri sogni.

C’è, nella maggior parte dei nostri ragazzi, tanto scetticismo, tanta rassegnazione, una sorta di disillusione diffusa, spesso maschera di una voglia di credere nonostante la mancanza di punti di riferimento solidi e precisi della società contemporanea.

Per questo oggi educare è così difficile. I nostri ragazzi hanno bisogno di modelli coerenti che siano loro di esempio. Non possiamo trasmettere loro messaggi ambigui, ambivalenti. Non possiamo pretendere che credano in ciò in cui noi non crediamo.

“Uno potrà essere laico fin che vuole, ma se nulla è sacro, se tutto è manipolabile, comprabile, vendibile, allora la vita nostra è molto precaria e non vale molto.”

Il docente deve trasmettere ideali, valori, insegnando ad accettare sé stessi e i propri limiti, in un impegno costante che porti alla valorizzazione di ciascuno degli studenti di cui si occupa.

Ciò significa ascoltare gli studenti, le loro ansie, le loro difficoltà; insegnare ad esprimere emozioni e a non vergognarsene; concretamente può anche significare, come mi è capitato qualche mese fa in una classe quarta, passare due ore a discutere sulle aspettative reciproche e ritrovarsi poi più solidali, uniti in un obiettivo comune che non è solo quello disciplinare, ma è soprattutto quello formativo. 

Ascoltare, dunque. In una società che va di corsa e non è disposta a fermarsi ad ascoltare, i nostri ragazzi devono trovare nella scuola gli spazi per essere ascoltati (esigenza che il legislatore ha accolto con  la legge 309/1990 e l’istituzione dei CIC, centri di informazione e consulenza, volta a prevenire il fenomeno delle tossicodipendenze) e ascoltare, scoprendo il gusto di essere,  di sapere, di comunicare, arrivando ad apprezzare “quei beni di verità e umanità […] che possano aprire orizzonti e alimentare a lungo la vita, al di là dell’effimero”. " 

mercoledì 11 luglio 2018

Il problema siamo noi

Le polemiche sulla questione migranti che imperversano sui mass media da due mesi a questa parte, rischiano di far perdere di vista una questione centrale: il problema non sono i migranti, che sempre ci sono stati e sempre ci saranno (la storia dell'umanità è caratterizzata proprio dalle migrazioni dei popoli). Il problema siamo noi. In particolare noi italiani, così refrattari a accettare regole che viviamo come un disturbo al nostro individualismo esasperato e di cui non cogliamo invece gli aspetti positivi.
 Il problema sono gli italiani che non rispettano il codice stradale, che non pagano le tasse, che sono disposti ad accettare l'aiuto dell'amico o dell'amico dell'amico per trovare un lavoro, per superare un concorso o un colloquio, per evitare la fila ad un ufficio pubblico, per ottenere un appuntamento per una visita di controllo o un ricovero presso un ospedale pubblico, per iscrivere il figlio al nido o presso un istituto scolastico, ecc. ecc..
In questo caos che caratterizza la vita di molti italiani si inseriscono i migranti. Quelli che hanno dato e danno prestigio e lustro a questo Paese e quelli che, anziché essere risorsa per pagare le future pensioni, bivaccano nei giardinetti e nelle stazioni spacciando stupefacenti o vendendo borse e occhiali da sole taroccati anche agli italiani.
L'Italia è stata fatta quasi 160 anni fa. Per gli italiani del buon Massimo D'Azeglio stiamo ancora aspettando. O ci accontenteremo di questi.

lunedì 9 luglio 2018

Crescere nella società liquida: la maturità come rito di passaggio

Nel mondo classico era l'efebia, oggi è l'esame di maturità. Un breve confronto con la mia collega e magistra, ed ecco qualche riflessione in ordine sparso su un aspetto che ho vissuto e che ha occupato molti dei miei pensieri in questo assolato primo mese di vacanze. Come rivivere dieci anni dopo - anche qualcuno in più - la maturità, con uno spirito diverso ma non meno intenso. Le mie ragazze, che conosco da due anni, hanno sostenuto gli esami: pur non essendo tra i commissari d'esame, ho vegliato sul tutto da lontano. L'empatia è stata forte, le attese piene di speranze e adrenalina... è stato come tornare indietro nel tempo, a quel lontano 2006 in cui timidamente varcai per ultima in tutto l'istituto la soglia dell'aula in cui affrontai la prova orale. 

Ma, in fin dei conti, che cos'è questo esame? Che cosa significa oggi? Come si può pretendere di misurare con una valutazione numerica con quale intensità e splendore sia fiorito quel bocciolo che abbiamo colto - e accolto -, ancora chiuso, alle soglie dell'adolescenza? 

Maturità è una parola forte, una parola bella e densa di significato, che affonda le proprie origini nel lessico agricolo. Investe noi docenti di una missione importante e delicatissima: quella di coltivare un terreno, di renderlo fertile, di accompagnare la crescita di quel debole e incerto stelo che nasce da un seme, fino a farlo sbocciare. Proteggerlo, per quanto possibile, dalle intemperie di questa società liquida, per evitare che l'incertezza e la paura lo sradichino come l'aratro di catulliana memoria.

Se la parola maturo poi contiene la radice -ma, che esprime l'idea del "misurare", non dovremmo forse tornare all'essenza profonda, quasi fisica, di questa parola? In essa è contenuto tutto ciò che serve: il principio della misurazione e quello dell'accompagnare qualcosa al suo massimo livello di perfezione e compimento. Quale la fusione migliore? Un percorso di misurazione della crescita di una persona, nella sua gradualità, nelle fasi di successiva acquisizione e continuo potenziamento delle competenze. Valutare non solo la performance ma soprattutto il percorso, questo si sente dire fra i corridoi delle nostre scuole... la verità è che sono ben pochi gli insegnanti a concretizzare la chimera che sono le competenze.

L'esame di maturità cambierà pelle, e staremo a vedere. L'auspicio è che questo snodo così importante possa riacquistare davvero quella dimensione religiosa, sacra, indicibile dei riti di passaggio, in cui si sperimenta per la prima volta la vertigine ma anche l'ebbrezza di essere (quasi) adulti, in cui ogni metro percorso conta più della meta. 


Oltre l'apparenza e il pregiudizio

Quotidianamente, a volte senza rendersene conto, accade di avere dell'altro, qualunque età abbia, a qualunque genere appartenga, un'idea fondata su un pregiudizio o che anche solo si limita a basarsi su un pregiudizio.
Gli stereotipi della "Bella uguale stupida" (che, negli ultimi decenni ha coinvolto anche gli uomini "Belli uguale stupidi"), o quello del milanese lavoratore indefesso e del romano fannullone nonché tutti gli altri giudizi stereotipati o che si limitano a fermarsi alle apparenze senza indagare oltre, caratterizzano buona parte delle credenze del genere umano.
Fermarsi all'apparenza o limitarsi ad accettare gli stereotipi e le categorie definite facilita la definizione di quanto e di chi ci sta intorno ma non ci aiuta a conoscere il mondo, non ci aiuta a conoscere gli altri e, forse, nemmeno noi stessi.
Andare oltre l'apparenza dovrebbe essere l'obiettivo di ciascuno di noi per conoscere ed apprezzare tutti coloro che ci stanno intorno, al di là delle false opinioni e certezze di cui, alcuni, continuano a nutrirsi.
La famiglia e soprattutto la scuola possono fare molto. 
E sarebbe un traguardo riuscire a far sì che, nel giro di pochi anni, non ci si trovi ancora di fronte a tabelle di raccolta di idee che degli uomini e delle donne riportino certe definizioni.


STEREOTIPI E PREGIUDIZI DI GENERE
IN UNA PAROLA


DEFINIZIONI DATE DA UOMINI 
DEFINIZIONI DATE DA DONNE
UOMINI
DONNE
UOMINI
DONNE
EGOISTI
RISOLUTE
STUPIDI
COMPLESSE
ONESTI
LUNATICHE
INCOMPRENSIBILI
PARANOICHE
NOBILTA’ D’ANIMO
BELLEZZA
EGOISTI (2)
SENSIBILI (4)
VERI AMICI
SENSUALE
IMMATURI
DETERMINATE (2)

17, 20, 24, 69, tombola!

Sinceramente, ne ho abbastanza di chi continua a lamentarsi di essere passato di ruolo dopo 10, 15, 20 anni di precariato: era (ed è) il meccanismo delle supplenze e di immissione in ruolo che ha reso (e rende) una prassi tutto ciò. Si consideri che tra gli anni '80 e la fine degli anni '90 i concorsi sono rimasti bloccati per anni. Contemporaneamente si permetteva di inserirsi nelle graduatorie di supplenza, accettando, in certi casi, come unico titolo quello di studio, che non necessariamente attestava la preparazione per una professione tanto importante e delicata quale è quella dell'insegnante.
Quando io, nel 2005, sono entrata in ruolo, dopo 17 anni di precariato, c'erano con me colleghi che avevo frequentato per decenni, invecchiando con loro, incontrandoli annualmente in occasione delle nomine annuali di supplenza. 
Lo scorso anno, in occasione della discussione in Comitato di Valutazione, la maggior parte dei colleghi che terminavano il loro periodo di prova per l'immissione in ruolo, aveva alle spalle un periodo di precariato oscillante tra gli 11 e i 18 anni.
Negli ultimi anni, anche per l'intervento della Commissione di Giustizia europea, a seguito di continui ricorsi, il periodo di precariato si è notevolmente accorciato. La verità è che non si sarebbe dovuto, decenni fa, mettere in atto un meccanismo tanto perverso e umiliante per tutti coloro che nella scuola lavorano o che della scuola fanno parte.
Il problema vero è che, tuttavia, attualmente sento lamentarsi persone che alle spalle hanno un periodo brevissimo di precariato e che ambirebbero ad entrare nei ruoli di docente della scuola pubblica non per passione ed amore per questo mestiere ma per garantirsi il posto fisso, magari nello stesso luogo in cui sono nati. Non è un segreto per nessuno che le maggiori opportunità di esercitare questo mestiere sono al Nord e non è un caso che molti, me compresa, subito dopo la laurea si sono inseriti nelle graduatorie di supplenza delle province del settentrione.  Ecco, io costoro, se potessi, li inviterei a provare altri mestieri: con la scuola e con gli studenti non si scherza: non sono pacchi e non sono timbri o pratiche di cui occuparsi come in un ufficio.

domenica 8 luglio 2018

Quelli del professionale

Quante volte è capitato di dover assistere all'autodenigrazione da parte degli studenti degli istituti professionali!
 
"Profe, non siamo al liceo, noi siamo del professionale!"
"Profe, è inutile, perde tempo, queste cose non le capiremo mai!"
"Profe, non siamo capaci, non riusciamo, profe, lasciamo perdere!!!"
Spesso, l'atteggiamento autodenigratorio è dettato dalla paura di imbattersi in un insuccesso, l'ennesimo della loro storia scolastica, fatta di frasi ascoltate da docenti o presunti tali che li hanno feriti, offesi con quelle che sarebbero dovute essere battute divertenti quali "Non capisci proprio niente!" oppure "Lo sapevo che non avresti capito nulla, la scuola non è proprio per te!".
A volte, invece, l'autodenigrazione è il tentativo di non impegnarsi, di bighellonare piuttosto che approfittare dell'opportunità di imparare che la scuola italiana, seppur malandata, può offrire.
In fondo, che gli studenti giochino al ribasso ci può anche stare.
Ciò che trovo inammissibile e assolutamente censurabile è invece l'atteggiamento di quegli insegnanti, di diverso ordine e grado, che di fronte alle difficoltà degli alunni degli istituti professionali esclamano: "Ma è chiaro che abbiamo difficoltà, sono i peggiori provenienti dalle elementari e dalle medie!"
Spiegatemi una cosa, cari colleghi che così vi esprimete. Peggiori si nasce o si diventa?
Troppo comodo insegnare a chi ha buone capacità e ottima volontà. Ma la sfida, come ci ha insegnato Don Milani, è insegnare a Gianni, non a Pierino del dottore.
"Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. É un ospedale che cura i sani e respinge i malati." (Scuola di Barbiana: "Lettera a una professoressa", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, I edizione 1967, pg. 20)
(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎3 ‎ottobre ‎2008 e postato su Sala Docenti il 27 ottobre 2012) 

sabato 7 luglio 2018

"Chiamami col tuo nome"

"<<Non parleremo mai più, io e te>> dissi, mentre scendevamo l'interminabile pendio, il vento tra i capelli.
<<Non dire così.>>
<<Lo so già. Ci limiteremo a chiacchierare. Chiacchierare, chiacchierare. Stop. E sai qual è la cosa più buffa? Che me lo farò bastare.>>
<<Ti è appena uscita una rima>> rimarcò.
Adoravo il modo in cui perdeva la pazienza con me." 
(André Aciman: "Chiamami col tuo nome", Guanda, Milano, 2008, Tredicesima edizione febbraio 2018, pagina 96)

Il cuore non basta

"Figli si nasce, genitori no." recitava uno slogan di una trentina di anni fa. L'esperienza genitoriale, da sempre sfidante, è diventata parecchio complessa soprattutto negli ultimi decenni. Non bastano l'intuito e l'amore di una madre e di un padre per evitare di commettere errori gravissimi nel crescere i propri figli. Gli studi specifici hanno dimostrato e dimostrano con sempre più precisione quanto possano influire ed essere deleteri i comportamenti dei genitori sullo sviluppo di ciascun figlio. La cui educazione, di fatto, inizia già nel momento del concepimento. L'idea che i genitori si fanno della creatura che sta per nascere comincerà già ad influire su ciò che quella creatura diventerà. 
Forse sarebbe il caso che i futuri genitori e i genitori stessi seguissero corsi specifici di aggiornamento per imparare ad essere genitori. Genitori si diventa e si impara ad esserlo studiando, leggendo testi specifici. Perché tutto l'amore del mondo e l'intuito di una madre e di un padre non bastano più.



venerdì 6 luglio 2018

Il piacere della collaborazione: un ritorno alle origini

"PENSIERI, COMMENTI E IDEE IN LIBERTA'
Le sale insegnanti non sono tutte uguali: in alcune, come quella in cui noi della redazione ci siamo incontrati, si parla di tutto, ci si confronta e nascono ottime collaborazioni che rendono piacevole lo stare a scuola. In questo blog vogliamo ricreare virtualmente il clima di quella sala docenti: uno spazio per confrontarsi e far sentire la propria voce, una sorta di redazione o di radio libera simile a quelle degli anni Settanta, quelle libere veramente." 
Con queste parole, nel settembre 2007, era stato inaugurato il blog "Sala Docenti". L'idea era quella di mettere a confronto opinioni e pensieri diversi, che partissero, ma non necessariamente, dal mondo della scuola, e si estendessero poi alle diverse situazioni della vita quotidiana. Il blog avrebbe dovuto prevedere la collaborazione di più persone, insegnanti, ma anche genitori e studenti. Di fatto, poi, solo Cristina, la collega con cui ho condiviso momenti importanti della mia vita professionale, e non solo, è sempre stata un'ottima e preziosa collaboratrice, arricchendo con le sue riflessioni le pagine di "Sala Docenti". 
La collaborazione è sempre preziosa e rende indubbiamente più ricca la riflessione, la discussione e il confronto.
Per questo, anche #Sala Docenti vuole riprovarci, con una sorta di ritorno alle origini. L'input a farlo, devo riconoscerlo e gliene sono grata, è partito da Diego, uno dei miei ex studenti.
Così, da oggi, questo blog diventerà una redazione cui collaboreranno voci diverse. Perché solo insieme si cresce davvero.

La letteratura insegna: Pier Paolo Pasolini


  Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

(Pier Paolo Pasolini: “Alla mia nazione” da "La religione del mio tempo", 1961)

martedì 3 luglio 2018

Esultare sparando

Ditemi quello che volete: capisco la gioia, ma esultare sparando proprio no, non si può vedere né accettare!

lunedì 2 luglio 2018

Diritto di cittadinanza

Caleb è nato in Italia. Frequenta la scuola italiana da quando aveva sei anni. Nella sua classe, nell'anno scolastico appena terminato, è stato uno dei migliori. Ma non è cittadino italiano. Lo sarà quando avrà compiuto il diciottesimo anno di età. Ecco, io questa cosa non l'ho capita e probabilmente non la capirò mai.

L’ENIGMA CHE SIAMO


"<< Ho passato trent’anni a scavare nelle coscienze, nel grande mistero dell’uomo, >> mi confida un neuropsichiatra << ma le zone buie sono ancora molto più vaste di quelle che mi pare d’avere rischiarato.  Un giorno viene da me un uomo con il braccio destro paralizzato. Era una paralisi isterica, non provocata da un trauma, da un incidente, ma da un’alterazione di nervi. L’avevano già curato alcuni miei colleghi, senza risultato. Decido di trattarlo con l’ipnosi. Tanto per spiegarmi con te, che di medicina non sai niente, ti dirò che volevo convincerlo, sotto il trattamento d’ipnosi, a rendersi conto che il braccio non era malato e che, per recuperarlo, sarebbe bastato trasmettergli l’ordine di muoversi. Così è stato infatti. Una guarigione rapida, quasi miracolosa. Il mio cliente guardava muoversi il suo braccio e piangeva per l’emozione. Bene, neanche dieci giorni dopo quell’uomo timido e quieto va a casa, apre il cassetto in cucina, prende un coltello con venti centimetri di lama e lo pianta nel ventre della moglie. Hai capito che cosa era successo? >>
Rispondo di no, che non ho capito niente, che mi sembra solo il delitto di un pazzo. << Eh no, >> riprende il medico << la faccenda è più complessa. Quell’uomo da tempo odiava la moglie e nell’inconscio aveva già stabilito di ucciderla. La paralisi era stata, senza che lui lo sapesse, la sua difesa. Insomma, il delitto gli ripugnava, ma, terrorizzato dal pensiero di poterlo compiere in un momento di follia, aveva bloccato con la paralisi il braccio destro. Ed ora, recuperato il braccio, tolto il freno che la coscienza gli aveva misteriosamente imposto, aveva ucciso. Vedi che enigma siamo? >>”
 Vittorio Buttafava: "La fortuna di vivere - Taccuino", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1982, Pagg. 79 - 80 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1981) 

"Abbiamo dentro, tutti, una ferita piccola o grande che non osiamo scoprire, che ci farebbe gridare di dolore solo a sfiorarla. Meglio lasciarla lì, nel silenzio, in attesa che diventi una cicatrice."
Vittorio Buttafava: "Una stretta di mano e via", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1978, Pag. 30 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1976) 


"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."
La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.
E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.
L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 
A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.