ORIANA
FALLACI: “UN UOMO”, Rizzoli, Milano, 1979
(Pgg.
11,12, 17, 456, 457)
Un
ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante,
ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi,
zi, zi! Vive, vive, vive! […] Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila,
alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si
contavano più. […] Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva
scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non
lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi
turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi
vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non
riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro
cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso,
responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni
libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti
ascoltavano, ora che eri morto. […] Mi toglieva il respiro […] la certezza che
tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento,
il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e
le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave
affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non
muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo
abbattuto con una rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e
basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o
subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e
beffardo? […]
Ma
più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco
del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi
come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive,
vive. […] Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se
non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.
* * *
Fu
così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti
al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le
quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo
tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso
gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita
fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La
solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle
mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi
vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita
tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con
la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico
interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette
segna il cammino della memoria.
* * *
E
così, mentre accadevano altre cose leggiadre, […] mentre Papandreu adottava il
tuo cadavere come si adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un
cencio in comizi mentre i tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in
cambio d’una bella poltroncina in Parlamento; […] mentre anch’io venivo
minacciata con lettere e telefonate, prova-a-scrivere-certe-cose-e-vedrai;
stampa-il-tuo-libro-e-vedrai; mentre il popolo accettava questo, di nuovo,
subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di nuovo, piegato di nuovo
all’obbedienza o alla convenienza o all’impotenza; mentre nessuno osava dire
assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete ammazzato tutti
insieme, lerci assassini […], il Potere vinse ancora una volta. L’eterno Potere
che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso
solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a quel modo e,
se mai avesti un dubbio, esso svanì nell’attimo in cui tirasti il respiro
profondo che ti succhiava dall’altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono
puntualmente gettati coloro che vogliono cambiare il mondo, abbattere la Montagna, dare voce e
dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I
solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali
la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere sarebbe pura
follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene
magari quando non si spera più, […] lo capì anche il gregge che bela dentro il
suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e
ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché
sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran
Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo di ogni
potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo,
calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un
sogno, di un uomo.