Visualizzazione post con etichetta il mestiere di vivere. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta il mestiere di vivere. Mostra tutti i post

lunedì 1 febbraio 2021

Morire di parto

Quando nel 1977 questa canzone cominciò a circolare sulle radio libere che trasmettevano canzoni melodiche, non potei far a meno di esserne colpita. 

Nel 1977  morire di parto in Italia non era un'eventualità così remota, sebbene accadesse sempre meno frequentemente rispetto ai primissimi anni del decennio precedente (1960/1961), quando l'ospedalizzazione del parto non era ancora così diffusa.

Fin da bambina io avevo imparato che di parto si poteva morire e che potevano morire sia la madre sia il neonato. Entrambi. O uno dei due. 

Nella mia famiglia la cugina di mia madre, a 22 anni, era morta di parto e con lei era morto il suo bambino. Il sorriso di quella giovane donna, di cui mi restava il ricordo nella foto che la madre di lei teneva in sala e che era la stessa che c'era sulla sua tomba, mi turbava ogni volta che mi capitava di guardarlo.

Ugualmente mi turbava e mi imbarazzava, perché mi sembrava di essere una privilegiata rispetto a lei, la vicenda di una bambina che abitava nel mio condominio e che era mia compagna di giochi: la sua mamma era morta nel darla alla luce e lei viveva con la nonna materna.

Sono le storie che viviamo che spesso, anche se non ce ne accorgiamo. ci segnano per sempre, indirizzando e guidando poi le nostre emozioni, le nostre passioni, le nostre attenzioni e le nostre curiosità, i nostri gusti, le nostre scelte di vita.


"Finalmente s’apre quella porta accanto
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Lo so, non me lo dica, ho già capito
Il bimbo è nato, ma il sogno è finito
Odio mio figlio
Dio, che mi succede
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo
In cambio non lo accetto, devo odiarlo"



https://www.youtube.com/watch?v=UKugS2PGr3o&feature=share&fbclid=IwAR021YOUDqnM848s8bhVR3rZaP_De5lFRLvBisa2ATPBISX8PPdDH12TAsk


Filippo Schisano
Odio mio figlio
Sono lì in corsia ad aspettare
Che diventi padre, sai che gioia
A te che soffri per amore mio
Ma non faccio altro che pensare a te
Nella gioia e nel dolore sarà sempre mio
Ho comprato delle rose stamattina Che bellezza se verrà un bambino
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Non potrò scordarmi mai di Dio Finalmente s’apre quella porta accanto
Dio, che mi succede
Lo so, non me lo dica, ho già capito Il bimbo è nato, ma il sogno è finito Odio mio figlio
In cambio non lo accetto, devo odiarlo
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
Ho rubato un giglio alla Madonna
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto e devo odiarlo Anche se oramai non vale niente
Poi guardo quegli occhietti da bambino
Ma non ho il coraggio di donarlo a te Non mi ringrazieresti coi tuoi baci Odo un vagito gemere dal nulla Mi getto a capofitto nella culla Che chiedono perdono al suo papà Odio mio figlio
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Dio che mi succede Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto, devo odiarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
L’ho solo perdonato, ma mi bagno il viso
Quel bimbo fuori guarda e mi fa già un sorriso

domenica 25 ottobre 2020

"La social catena"

 "Il 6 agosto 2020 Tizio parte per le vacanze. Il 12 agosto contrae il Covid19 da un asintomatico, ignaro di esserne affetto. Tizio, di ritorno dalle vacanze il 14 agosto 2020, non effettua il tampone. E' asintomatico; il 20 agosto 2020 incontra Caio e Sempronio cui trasmette il virus. Caio e Sempronio restano asintomatici. Caio, il 26 agosto, partecipa a una festa di compleanno e trasmette il virus a tre persone. Sempronio, il 29 agosto, partecipa a un matrimonio e trasmette il virus a dieci persone. Una delle persone incontrate da Caio, il 3 settembre contagia tre persone, compresa sua nonna che ha 75 anni. Il 4 settembre comincia ad avere febbre e malesseri vari; non è grave. Sua nonna, invece, il 10 settembre, viene ricoverata in terapia intensiva. Nel frattempo ...".

La storia continua così. Per coloro che si fanno beffe del numero dei contagiati, comunicato quotidianamente, ritenendo che contare gli asintomatici non serva a nulla, suggerirei di riguardare il numero dei contagiati del 25 settembre e quello del 25 ottobre 2020. Al momento le strutture sanitarie reggono ma potrebbe succedere che, in breve tempo, non reggano più. E non mi si venga a dire che occorre salvare l'economia. La storia della diffusione delle epidemie insegna che l'economia non può non risentirne. E allora, quello che davvero occorre fare, è stringersi in una "social catena", per contrastare grazie alla solidarietà e al senso di comunità, questa prova che tutti noi, indistintamente, siamo chiamati ad affrontare.




"Così fatti pensieri                                145
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contro l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte                                150
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo                            155
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede."
(Giacomo Leopardi: "La ginestra, o il fiore del deserto", versi 145 - 157)



sabato 28 dicembre 2019

Il pianto di Rachele e la strage degli innocenti: le responsabilità degli adulti

Muoiono. Cadono sulle strade, impregnate del loro sangue, spesso nei fine settimana, all'alba di una domenica mattina, al termine di una notte da sballo, fatta non più solo di luci stroboscopiche e musica ad altissimo volume ma spesso di pasticche a basso costo e di facile consumo e fiumi di alcol, e corse in automobile e rincorse alla ricerca di un senso di questa vita, di questa storia "anche se questa storia un senso non ce l'ha" come canta Vasco.
Spesso hanno tra i 15 e i 25 anni. Giovani, giovanissimi, che a volte non hanno nemmeno fatto in tempo a diventare anagraficamente adulti.
E noi, adulti attoniti, versiamo lacrime e imprechiamo contro un destino crudele e una società violenta, sbagliata, ingiusta.
Così, spesso, dimentichiamo, noi adulti, che la società è l'insieme di noi tutti.
Noi tutti che abbiamo accettato di rendere facile ciò che un tempo era proibito (anche se lo si faceva ugualmente), che abbiamo disimparato a dire "No", nell'illusione di rendere la vita più facile, senza complicazioni, senza traumi, senza difficoltà.
E invece il bello della vita sta proprio nello sfidarla, nel superare gli ostacoli, nell'affrontare le difficoltà e vincerle. 
Sembra che l'abbiamo dimenticato, noi adulti. Così, ai più giovani, non resta che cercare la sfida: nell'auto lanciata a gran velocità, nella nebbia di un cervello impasticcato, nella giostra di incontri sessuali consumati come un drink. Incapaci di emozioni, perché le emozioni vanno apprese e vanno insegnate, anche se fanno paura, anche se fanno male, anche se rendono fragili ed insicuri, come fragile ed insicura è l'umanità tutta.
Riappropriamoci delle emozioni. Riappropriamoci del pianto, non quello della sofferenza e del dolore di Rachele che piange per le vittime di una cultura falsa e illusoria, ma del pianto di gioia, quello di Filumena Marturano che scopre per la prima volta la forza e la bellezza dell'amore.

mercoledì 18 dicembre 2019

#Ediciamolo!

Non me la prendo con i ragazzi. Me la prendo con genitori e adulti che non hanno insegnato o non insegnano loro che esistono gli altri, con cui si convive e che meritano rispetto, lo stesso che si pretende per sé stessi; che le regole, anche se non piacciono, vanno rispettate; che i semafori non servono ad illuminare le città; che, soprattutto, i genitori e gli educatori non sono amici, non possono esserlo, dato che hanno un compito nobile: quello di educare e formare e per svolgerlo non si può, non si deve essere amici.

venerdì 11 ottobre 2019

Libertà


“La vostra libertà è di scegliere entro i limiti delle poche possibilità che vi danno, cioè di ballare un twist o un madison, ma non di ballare o pensare; non di ballare o regnare e essere padroni del vostro voto, del vostro pensiero; non di ballare oppure vincere discussioni; non di ballare o convincere le persone con cui parlate.
Purtroppo la mia previsione è che sarete pecore, che vi piegherete completamente alle usanze, che vi vestirete come vuole la moda, che passerete il tempo come vuole la moda. Ma mi dite che soddisfazione ci trovate ad accettare una situazione simile? Ribellatevi! Ne avete l'età. Studiate, pensate, chiedete consiglio a me, inventate qualcosa per sortire da questa situazione in cui siete e poter arrivare al punto di fare realmente, con una libera scelta vostra, le cose che vi par giusto fare. Per me sarebbe una umiliazione tremenda se uno mi domandasse: <<Cosa stai facendo? Perché lo stai facendo?>> e dovessi restare a bocca aperta senza rispondere. E educo i miei ragazzi così, a saper dire in qualunque momento della loro vita, cosa fanno e perché lo fanno.”
(Citazione tratta da: Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pagg. 30 - 31; Lezione ad un gruppo di ragazze della scuola media di Borgo S. Lorenzo salite a Barbiana nel Carnevale 1965)

sabato 26 gennaio 2019

"Essere felici - Il cinema insegna"

“Io penso che la felicità è quando ti vai a prendere quello che c’è di grande nella vita, anche se devi superare tantissimi ostacoli e difficoltà. Quindi la felicità è una cosa che se proprio la vuoi te la devi andare a prendere. A questa cosa ci penso molto spesso, perché io delle volte mi sento solo e disperato, ma altre volte sento proprio di essere felice.
E non ho detto allegro, contento, sereno, ho proprio detto felice!
Di solito però gli altri, le persone normali, vogliono che stai in difesa, che fai catenaccio, è come se non ci credono che ci sono le cose grandi da andarsi a prendere in attacco. In difesa uno soffre meno, ma non so se può davvero essere felice.
[…] Una cosa molto importante per essere felici sono le persone speciali, una persona speciale è quella che ti fa capire che in attacco ci sono le cose grandi e che stare in difesa è un peccato. Oppure sei tu che gli fai capire che in attacco ci sono le cose grandi e allora sei molto felice di farglielo capire.

Io ci provo ad essere felice, costi quello che costi. Certo, mica si può essere felici di tutto, però forse basta esserlo di qualcosa, che poi quel qualcosa illumina tutto il resto… e siamo salvi.” (Tratto dalla sceneggiatura del film “Banana” di  Andrea Jublin. Italia, 2015)


domenica 25 novembre 2018

C'è ancora tanto da fare

Non sono solo le minacce, le urla, i pedinamenti, le botte, gli assassini. Le donne sono vittime di violenza ogni volta che sentono il peso di una cultura soffocante che le costringe a tacere, a mediare, ad accettare sopportando, quotidianamente, di essere quello che non sono.
Sono vittime di violenza quando nascondono i propri sentimenti più veri in nome di un modello femminile che le vuole pazienti, dolci, delicate, altruiste, pronte a sacrificare sempre sé stesse  e i propri desideri per favorire quelli dei figli, dei partner, dei genitori e di chiunque altro si aspetta da loro che sì, lo faranno, perché è sempre stato così.
Sono vittime di violenza quando si sentono schiacciare dal senso di colpa ogni volta che si concedono una serata con le amiche o un paio d'ore di libertà per pensare solo ed esclusivamente a sé stesse, financo quando, per motivi di lavoro, devono trattenersi più a lungo in ufficio mentre a nessun uomo salterebbe in mente di sentirsi in colpa per una partita a calcetto con gli amici o per essersi trattenuto in ufficio più a lungo per motivi di lavoro.
Dietro il femminicidio c'è il retaggio di una cultura dura a morire, di una cultura che non accetta che le donne siano considerate persone che possono dire NO, ribellarsi, andarsene, cambiare idea e che, soprattutto, pensino innanzi tutto a sé stesse, a volersi bene, ad essere egoiste, di quel sano egoismo cui ciascun individuo ha diritto.
Ecco perché non basta un segno rosso sul viso in segno di solidarietà ed attenzione. Ecco perché non bastano cortei, manifestazioni e giornate dedicate.
Ecco perché c'è ancora tanto da fare.

lunedì 29 ottobre 2018

Obiettori di coscienza e piccole storie ignobili

A chi si ostina a tuonare contro la 194, sarebbe opportuno ricordare che l'aborto è sempre esistito. La 194 del 1978 è stata solo (e finalmente, nonostante le sue imperfezioni) la legge che lo ha regolamentato, nel tentativo di evitare che le donne delle classi più povere o le minorenni morissero di setticemia sotto i ferri da calza delle mammane. Noi che c'eravamo ce lo ricordiamo e vorremmo che tutti ricordassero che tanti obiettori di coscienza erano in precedenza proprio coloro che, clandestinamente e compensati con ricche parcelle, praticavano gli aborti clandestini.
Quegli stessi aborti clandestini evocati da Francesco Guccini nel 1976 con "Piccola storia ignobile".



"E così ti sei trovata come a un tavolo di marmo desiderando quasi di morire,
presa come un animale macellato stavi urlando, ma quasi l'urlo non sapeva uscire
e così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi davvero sola fra le mani altrui,
che pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi
di tuo padre, di tua madre e anche di lui,
di tuo padre, di tua madre e anche di lui,
di tuo padre, di tua madre e anche di lui.

Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi, non vedo proprio cosa posso fare.
Dirti qualche frase usata per provare a consolarti o dirti: "è fatta ormai, non ci pensare".
E' una cosa che non serve a una canzone di successo e non vale due colonne su un giornale,
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare..."

giovedì 27 settembre 2018

Vinti e persi

[...] "Oggi il mio pensiero va a tutti i 'vinti', a quelli che non ce l'hanno fatta, a quelli che stanno ancora cercando un buon motivo per andare avanti; questo mestiere ci fa incontrare tante giovani vite, nell'età più difficile; accompagnarle nel periodo in cui ci sono affidate è un grande privilegio e un grande impegno, riuscire a cogliere i loro segnali, le loro richieste di aiuto spesso non è facile ma provarci si può." [...]
Un vecchio post di Cristina mi ha riempito di malinconia e ha fatto pensare anche a me a "tutti i vinti", quelli che non ci sono più e quelli che stanno ancora fuggendo perdendosi nei mondi ovattati (o presunti tali) dell'alcol e delle droghe... Gli sguardi persi, vuoti, spenti, la paura che diventa aggressività verso gli altri e verso sé stessi, le belle menti (perché, ammettiamolo, spesso sono le anime più nobili e più sensibili che finiscono per perdersi) che improvvisamente bruciano la loro creatività, la loro nobiltà, la loro intelligenza e non sono più loro, sono altri che, improvvisamente, ci ritroviamo davanti e non riconosciamo più.
Quanti ne ho incontrati, quanti ne incontrerò, provando ogni volta la stessa sensazione di impotenza, di incapacità di farmi ascoltare, di urlare "Ribellati! Usa la tua mente e vivi le sensazioni che ti attraversano la mente senza mediarle. Affronta le tue paure e condividile con chi ti è vicino e ti vuole bene, perché c'è chi ti è vicino e ti vuole bene, anche se tu non te ne accorgi...".

‎(Rielaborazione di un vecchio post già pubblicato il ‎21 ‎novembre ‎2007 sulla piattaforma Splinder)

domenica 16 settembre 2018

L'esigenza di fare figli

"In Italia abbiamo l'esigenza di fare figli": ammettiamo che sia questa la vera esigenza.
Ma per fare figli sarebbe necessario che un Paese creasse le condizioni perché le coppie possano decidere di mettere al mondo un figlio. Sarebbe cioè almeno necessario:
- creare opportunità di lavoro stabili per tutti, uomini e donne. Con un lavorio precario, e miseramente retribuito, è difficile decidere di affittare o comprare casa, sposarsi o anche solo convivere, progettare a lungo termine;
- creare strutture che consentano alle donne di lavorare alle stesse condizioni degli uomini, ovvero asili nido e scuole d'infanzia pubblici, a basso costo, aperti 24 ore su 24 (come saggiamente hanno cominciato a fare alcune catene di supermercati, consapevoli del fatto che ci sono lavoratori turnisti). E' finito il tempo in cui esistevano famiglie allargate in cui i bambini venivano affidati a vecchie zie e nonni, vivendo tutti insieme nelle cascine o nelle masserie. E' finito il tempo in cui si ritiene che compito delle donne sia quello di fare e allevare figli;
- smettere di pensare che le pensioni dei nonni possano essere utilizzate per aiutare economicamente figli e nipoti. Ugualmente bisognerebbe smettere di considerare i nonni come baby sitter a tempo pieno completamente gratuiti.
Siamo nel XXI secolo, non nel XIX. La società è cambiata, le persone, gli individui sono cambiati.
Sarebbe il caso di rendersene conto, una volta per tutte.

domenica 19 agosto 2018

Il senso della vita (e della morte)

Un tempo, nelle giornate di lutto nazionale, tutto si fermava: le serrande si abbassavano, tacevano i programmi radiofonici e televisivi e le emittenti trasmettevano solo notiziari ed, eventualmente, musica sinfonica e requiem.
A ciascuno, soprattutto ai più giovani, appariva chiaramente che, di fronte alla morte, bisognava fermarsi, tacere, meditare, proprio per cogliere il senso dell'inadeguatezza, della fragilità, della precarietà dell'essere umano che proprio così poteva apprezzare ancora di più la grandezza e il valore della vita.
Poi tutto è cambiato. E non è stato solo colpa della diffusa laicizzazione. Perché si può anche non credere o non praticare una fede religiosa ma osservare una legge morale che impedisca di seguire solo il proprio interesse personale ritenendosi onnipotenti. L'onnipotenza non è dell'essere umano, anche se c'è chi è convinto del contrario. 
E di fronte all'imponderabilità della vita e della morte, gli essere umani non possono fare altro, come suggerisce Leopardi ne "La ginestra", che stringersi insieme in una "social catena" che permetta di affrontare le difficoltà e i lutti che la vita porta inevitabilmente con sé. 
Solo affrontando la morte, ammettendone l'esistenza e non negandola o decidendo di ignorarla, si può gustare e apprezzare davvero il senso della vita.


" [...] Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede."
(Giacomo Leopardi: "La ginestra o il fiore del deserto", vv. 145 - 157)

domenica 12 agosto 2018

Non sono solo canzonette...

... se, pur parlando d'amore, evidenziano, nemmeno troppo velatamente, un'idea: quella di una donna fragile e insicura che si affida a un uomo di cui è proprietà ("Donna donna mia", canzone del 1979, interpretata da Toto Cutugno) o di una donna che, proprio perché appartiene a un uomo, non può pretendere di lasciarlo ("Io che non vivo", del 1965, interpretata da Pino Donaggio).
Qualcuno potrà osservare che si tratta di canzoni ormai vecchie e legate a una tradizione musicale nazional - popolare da cui si è attualmente lontani.
Ma quella tradizione ha alimentato una cultura di cui, ancora oggi, si fa fatica a liberarsi: un'idea di amore come possesso e non come occasione di affetto che dura nel tempo, libero come un dono incondizionato che nulla pretende in cambio ("Come prima", interpretata nel 1958 da Tony Dallara).

Di seguito, i link e i testi delle canzoni citate.


Tu, che strana davvero tu 
accendi la tua tivù
e non parli, non ridi più
non dirmi che non ti va più 
dai non far quella faccia lì
non è certo finita qui 
un po' fragile, un po' insicura 
non dirmi che non sei più
mia
mia mia mia 
donna donna mia 
mia mia mia mia 
non dirmi che tu 
vuoi andare via 
mia 
nella mente, nel cuore mia 
nei miei sogni e nel tempo mia 
non tremar, non aver paura 
non sei un'avventura e sei mia 
nei tuoi sogni proibiti, mia 
nei miei sogni proibiti, mia 
un po' donna e un po' bambina 
sorridi e mi vieni vicina 

più di questo che vuoi di più 
dimmi cosa ti manca in più' 
un po' fragile, un po' insicura 
ti amo e lo sai che sei mia 
mia mia mia mia 
donna donna mia 
mia mia mia mia 
non dirmi che tu 
vuoi andare via 
mia 

nella mente, nel cuore mia 
nei miei giorni e nel tempo mia 
non tremar, non aver paura 
non sei un'avventura e sei mia 
nei tuoi sogni proibiti, mia 
nei miei sogni proibiti, mia 
un po' donna e un po' bambina 
sorridi e mi vieni vicina


https://www.youtube.com/watch?v=N3W7qlMZTXY

Siamo qui noi soli
come ogni sera
ma tu sei più triste
ed io lo so
perché
forse tu vuoi dirmi
che non sei felice
che io sto cambiando
e tu mi vuoi lasciar

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia
mai niente lo sai
separarci un giorno potrà

Vieni qui ascoltami
io ti voglio bene
te ne prego fermati
ancora insieme a me

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia
mai niente lo sai
separarci un giorno potrà
Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita

senza te
sei mia
sei mia
sei mia





Come prima, più di prima t'amerò 
Per la vita, la mia vita ti darò 
Sembra un sogno rivederti, accarezzarti 
le tue mani, fra le mani stringere ancor 

Il mio mondo, tutto il mondo sei per me 
a nessuno voglio bene come a te 
Ogni giorno, ogni istante, dolcemente ti dirò 
«Come prima, più di prima t'amerò» 

Come prima, più di prima t'amerò 
Per la vita, la mia vita ti darò 
Ogni giorno, ogni istante, dolcemente ti dirò 
«Come prima, più di prima t'amerò»  


mercoledì 25 luglio 2018

Ripartire dall'essenziale

"Mi domando: [...] (i miei figli) sapranno che fare quando si troveranno al buio? Capiranno da dove può arrivare la luce della salvezza, da quale parte guardare? Ecco quello che dovremmo chiederci, noi genitori: se il nostro tempo sta lasciando loro qualcosa, se stiamo trasmettendo un patrimonio morale. Per riconquistare i nostri figli è da qui che dobbiamo ripartire: dall'essenziale." (Antonio Polito: "Riprendiamoci i nostri figli - La solitudine dei padri e la generazione senza eredità", Marsilio - Nodi, Venezia, 2017, Pagina 173)

domenica 15 luglio 2018

Condizione e cultura giovanile nella società e nella scuola: riflessioni e considerazioni.

Il relativismo imperante della società italiana contemporanea e l’omologazione massmediatica dei modelli di riferimento rendono sempre più difficoltoso il compito educativo.
Adulti e giovani si trovano, inoltre, spesso sommersi da una valanga di informazioni che travolgono e quasi sempre sovrastano quelle che tradizionalmente vengono trasmesse nelle aule scolastiche.

Accade così che i nostri adolescenti, con cui quotidianamente, come docenti, entriamo in contatto, appaiano lontani, apatici, annoiati di fronte a una “cultura dei libri” che non riconoscono come propria, distante anni-luce da quella che considerano la loro cultura.

La scuola viene spesso vissuta dagli adolescenti con disagio, quel disagio che nasce dalla difficoltà di capire il senso, il valore dei contenuti proposti, in un contesto sociale che dà importanza solo all’apparenza e al denaro. In un’età difficile qual è quella che va dai 13 ai 18 anni, molti finiscono per perdersi, per omologarsi al modello dello studente che non studia ma trascorre le ore scolastiche aspettando l’intervallo o scrivendo sul diario pensieri o slogan che esprimano il proprio mondo interiore, più o meno complesso.

Nelle classi dell’Istituto Professionale (ma succede anche negli altri indirizzi di studio della scuola secondaria superiore) presso cui attualmente insegno Italiano e Storia, capita spesso di trovarsi di fronte alunni così, che ritengono inutile lo studio di alcune materie perché “Il tornio gira anche senza Dante”, come ha esclamato qualche mese fa un mio studente.

La sfida allora, cui i docenti sono chiamati, è quella di aiutare i nostri ragazzi a comprendere che il ruolo della scuola non è quello informativo (in cui al momento risulterebbe perdente, visto il bombardamento di informazioni, per lo più non mediate, cui i nostri giovani sono sottoposti), ma formativo.

La scuola deve offrire a tutti la possibilità di formarsi innanzi tutto come esseri umani, uomini e donne che vivono, amano, pensano con la propria testa,  cittadini responsabili e non solo e unicamente lavoratori.

La scuola, attraverso l’attività dei docenti, può e deve fornire modelli alternativi a quelli imperanti, trasmettendo il gusto per le emozioni vere (e non quelle ad esempio, mediate dall’uso di sostanze stupefacenti, sempre più diffuse, ahimè, tra le nostre giovani generazioni); insegnando a guardarsi dentro e a capire chi si è e ciò che si vuole veramente, senza farsi trascinare per noia o debolezza dalle cosiddette “cattive compagnie”.

In fondo, poi, chi sarebbero le “cattive compagnie”? Dovremmo chiedercelo, noi adulti, e spiegarlo anche ai nostri ragazzi: le “cattive compagnie” sono date dall’unione di chi si è perso, facendosi schiacciare e travolgere da modelli falsi, dai falsi valori imperanti, seguendo la logica del “tutto e subito” o del “perché no?” che ci circonda.

Così, se lo scopo è apparire, “avere”, piuttosto che “essere”, nulla più ha senso, nulla più è sacro. Ugualmente, chi ha ancora speranze, sogni, progetti, teme di essere un alieno, un “non adatto”.

Questo non si riferisce a tutti, naturalmente. Ci sono giovani, ragazzi e ragazze, che si dedicano ad attività di volontariato di diverso tipo, attività di cui vanno fieri, o che sono solidali con i loro compagni aiutandoli a fare i compiti o coinvolgendoli nei loro hobby.



I nostri ragazzi hanno bisogno di credere. Hanno bisogno di una società adulta che dia loro delle regole certe. Che dia loro una speranza per un futuro che sembra già perduto.

“Ai suoi tempi era diverso, era tutto più certo” mi è stato detto dai miei studenti di quarta, nel momento in cui li invitavo a studiare per sé stessi, per il gusto di imparare e, magari, anche per realizzare i propri progetti, i propri sogni.

C’è, nella maggior parte dei nostri ragazzi, tanto scetticismo, tanta rassegnazione, una sorta di disillusione diffusa, spesso maschera di una voglia di credere nonostante la mancanza di punti di riferimento solidi e precisi della società contemporanea.

Per questo oggi educare è così difficile. I nostri ragazzi hanno bisogno di modelli coerenti che siano loro di esempio. Non possiamo trasmettere loro messaggi ambigui, ambivalenti. Non possiamo pretendere che credano in ciò in cui noi non crediamo.

“Uno potrà essere laico fin che vuole, ma se nulla è sacro, se tutto è manipolabile, comprabile, vendibile, allora la vita nostra è molto precaria e non vale molto.”

Il docente deve trasmettere ideali, valori, insegnando ad accettare sé stessi e i propri limiti, in un impegno costante che porti alla valorizzazione di ciascuno degli studenti di cui si occupa.

Ciò significa ascoltare gli studenti, le loro ansie, le loro difficoltà; insegnare ad esprimere emozioni e a non vergognarsene; concretamente può anche significare, come mi è capitato qualche mese fa in una classe quarta, passare due ore a discutere sulle aspettative reciproche e ritrovarsi poi più solidali, uniti in un obiettivo comune che non è solo quello disciplinare, ma è soprattutto quello formativo. 

Ascoltare, dunque. In una società che va di corsa e non è disposta a fermarsi ad ascoltare, i nostri ragazzi devono trovare nella scuola gli spazi per essere ascoltati (esigenza che il legislatore ha accolto con  la legge 309/1990 e l’istituzione dei CIC, centri di informazione e consulenza, volta a prevenire il fenomeno delle tossicodipendenze) e ascoltare, scoprendo il gusto di essere,  di sapere, di comunicare, arrivando ad apprezzare “quei beni di verità e umanità […] che possano aprire orizzonti e alimentare a lungo la vita, al di là dell’effimero”. " 

lunedì 9 luglio 2018

Oltre l'apparenza e il pregiudizio

Quotidianamente, a volte senza rendersene conto, accade di avere dell'altro, qualunque età abbia, a qualunque genere appartenga, un'idea fondata su un pregiudizio o che anche solo si limita a basarsi su un pregiudizio.
Gli stereotipi della "Bella uguale stupida" (che, negli ultimi decenni ha coinvolto anche gli uomini "Belli uguale stupidi"), o quello del milanese lavoratore indefesso e del romano fannullone nonché tutti gli altri giudizi stereotipati o che si limitano a fermarsi alle apparenze senza indagare oltre, caratterizzano buona parte delle credenze del genere umano.
Fermarsi all'apparenza o limitarsi ad accettare gli stereotipi e le categorie definite facilita la definizione di quanto e di chi ci sta intorno ma non ci aiuta a conoscere il mondo, non ci aiuta a conoscere gli altri e, forse, nemmeno noi stessi.
Andare oltre l'apparenza dovrebbe essere l'obiettivo di ciascuno di noi per conoscere ed apprezzare tutti coloro che ci stanno intorno, al di là delle false opinioni e certezze di cui, alcuni, continuano a nutrirsi.
La famiglia e soprattutto la scuola possono fare molto. 
E sarebbe un traguardo riuscire a far sì che, nel giro di pochi anni, non ci si trovi ancora di fronte a tabelle di raccolta di idee che degli uomini e delle donne riportino certe definizioni.


STEREOTIPI E PREGIUDIZI DI GENERE
IN UNA PAROLA


DEFINIZIONI DATE DA UOMINI 
DEFINIZIONI DATE DA DONNE
UOMINI
DONNE
UOMINI
DONNE
EGOISTI
RISOLUTE
STUPIDI
COMPLESSE
ONESTI
LUNATICHE
INCOMPRENSIBILI
PARANOICHE
NOBILTA’ D’ANIMO
BELLEZZA
EGOISTI (2)
SENSIBILI (4)
VERI AMICI
SENSUALE
IMMATURI
DETERMINATE (2)

sabato 7 luglio 2018

"Chiamami col tuo nome"

"<<Non parleremo mai più, io e te>> dissi, mentre scendevamo l'interminabile pendio, il vento tra i capelli.
<<Non dire così.>>
<<Lo so già. Ci limiteremo a chiacchierare. Chiacchierare, chiacchierare. Stop. E sai qual è la cosa più buffa? Che me lo farò bastare.>>
<<Ti è appena uscita una rima>> rimarcò.
Adoravo il modo in cui perdeva la pazienza con me." 
(André Aciman: "Chiamami col tuo nome", Guanda, Milano, 2008, Tredicesima edizione febbraio 2018, pagina 96)

lunedì 2 luglio 2018

L’ENIGMA CHE SIAMO


"<< Ho passato trent’anni a scavare nelle coscienze, nel grande mistero dell’uomo, >> mi confida un neuropsichiatra << ma le zone buie sono ancora molto più vaste di quelle che mi pare d’avere rischiarato.  Un giorno viene da me un uomo con il braccio destro paralizzato. Era una paralisi isterica, non provocata da un trauma, da un incidente, ma da un’alterazione di nervi. L’avevano già curato alcuni miei colleghi, senza risultato. Decido di trattarlo con l’ipnosi. Tanto per spiegarmi con te, che di medicina non sai niente, ti dirò che volevo convincerlo, sotto il trattamento d’ipnosi, a rendersi conto che il braccio non era malato e che, per recuperarlo, sarebbe bastato trasmettergli l’ordine di muoversi. Così è stato infatti. Una guarigione rapida, quasi miracolosa. Il mio cliente guardava muoversi il suo braccio e piangeva per l’emozione. Bene, neanche dieci giorni dopo quell’uomo timido e quieto va a casa, apre il cassetto in cucina, prende un coltello con venti centimetri di lama e lo pianta nel ventre della moglie. Hai capito che cosa era successo? >>
Rispondo di no, che non ho capito niente, che mi sembra solo il delitto di un pazzo. << Eh no, >> riprende il medico << la faccenda è più complessa. Quell’uomo da tempo odiava la moglie e nell’inconscio aveva già stabilito di ucciderla. La paralisi era stata, senza che lui lo sapesse, la sua difesa. Insomma, il delitto gli ripugnava, ma, terrorizzato dal pensiero di poterlo compiere in un momento di follia, aveva bloccato con la paralisi il braccio destro. Ed ora, recuperato il braccio, tolto il freno che la coscienza gli aveva misteriosamente imposto, aveva ucciso. Vedi che enigma siamo? >>”
 Vittorio Buttafava: "La fortuna di vivere - Taccuino", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1982, Pagg. 79 - 80 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1981) 

"Abbiamo dentro, tutti, una ferita piccola o grande che non osiamo scoprire, che ci farebbe gridare di dolore solo a sfiorarla. Meglio lasciarla lì, nel silenzio, in attesa che diventi una cicatrice."
Vittorio Buttafava: "Una stretta di mano e via", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1978, Pag. 30 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1976) 


"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."
La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.
E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.
L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 
A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.




venerdì 29 giugno 2018

Compagno di scuola


Per molti della mia generazione è stata una delle canzoni di riferimento. C’era chi pensava con disprezzo al “Compagno di scuola” evocato nella canzone cui, tanti giuravano, mai avrebbero assomigliato. Sbagliavano, come spesso succede.
E molti di noi, attualmente, conoscono perfettamente quelli che davvero non sono diventati “Compagni di scuola” e quelli che lo sono diventati ma non lo riconoscono e disprezzano gli altri, identici a loro.




Antonello Venditti: “Compagno di scuola”

Da “Lilly” (1975)


Davanti alla scuola tanta gente
otto e venti, prima campana
"e spegni quella sigaretta"
e migliaia di gambe e di occhiali
di corsa sulle scale.
Le otto e mezza, tutti in piedi
il presidente, la croce e il professore
che ti legge sempre la stessa storia
nello stesso modo, sullo stesso libro, con le stesse parole

da quarant'anni di onesta professione.
Ma le domande non hanno mai avuto
una risposta chiara.
E la Divina Commedia, sempre più commedia
al punto che ancora oggi io non so
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito

un servo di partito.
Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene
perché, ditemi, chi non si è mai innamorato
di quella del primo banco,
la più carina, la più cretina,
cretino tu, che rideva sempre
proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole,
gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto
sotto il banco.
Mezzogiorno, tutto scompare,
"avanti! tutti al bar".
Dove Nietzsche e Marx si davano la mano
e parlavano insieme dell'ultima festa
e del vestito nuovo, buono, fatto apposta
e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te)
e le assemblee, i cineforum, i dibattiti
mai concessi allora
e le fughe vigliacche davanti al cancello
e le botte nel cortile e nel corridoio,
primi vagiti di un '68
ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare!
E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te...
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?”




lunedì 25 giugno 2018

Allo stato brado

Sempre più frequentemente capita di vedere bambini dall'età variabile tra i due e i dieci anni che al ritiro bagagli in aeroporto si piazzano davanti al nastro trasportatore costituendo un pericolo per sé e un disturbo per gli altri dato che il bagaglio, i bambini, non riescono a ritirarlo rischiando contemporaneamente di prendere in testa quello del passeggero che ritira il suo e non riesce a schivare il bimbo piazzato laddove non dovrebbe essere. In quest'ultimo malaugurato caso, nemmeno così improbabile, il genitore del bimbo colpito non fa che lamentarsi. "Che modi!", ripete, dando per scontato che il figlio, urlante, possa fare ciò che vuole, in sua presenza e anche in sua assenza.
Non si pensi ch'io non sia consapevole di quanto sia difficile educare.
E' difficile, per esempio, chiedere a un bambino di due/tre anni di restare seduto e composto a tavola per tutta la durata del pasto senza pretendere di avere con sé giochini vari, di alzarsi ripetutamente, di gattonare, benché abbia già imparato a camminare da un po', sotto il tavolo ai piedi degli astanti.
Certo che è difficile!
Lo è al pari di chiedere a un tredicenne/quattordicenne di restare seduto al suo banco nel momento in cui gli è richiesto, senza girare per l'aula come un uccellino che si rifiuta di rientrare in gabbia.
Per l'adolescente riottoso, quando va bene, i primi tre mesi di scuola superiore possono bastare per trasmettergli l'idea che, sì, a scuola ci sono momenti in cui bisogna stare seduti.
Mi si dirà che sono altri tempi da quando frequentavo la scuola seduta dalla parte opposta alla cattedra.
Mi si dirà che i bambini, che gli adolescenti sono cambiati.
Non è così. Non sono cambiati i bambini, non sono cambiati gli adolescenti.
Quegli adulti che, ritenendo di fare cosa buona e giusta, lasciano i bambini e gli adolescenti allo stato brado in nome di una libertà presunta da concedere a sé stessi e ai più giovani che vengono loro affidati. 
Così quella libertà diventa licenza, diventa irresponsabilità, diventa incapacità di gestire sé stessi e gli altri.
Tutti allo stato brado, con buona pace delle necessarie regole di convivenza sociale e civile.