giovedì 21 gennaio 2016

"Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)


Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

mercoledì 20 gennaio 2016

Selezione dei docenti

Sono assolutamente contraria al concorso pubblico per l'abilitazione dei docenti: ritengo che la formazione e l'abilitazione dei docenti debbano passare attraverso un tirocinio in classe obbligatorio, in compresenza con un tutor formatore, cui far seguire gli esami finali (scritto e orale). Ritengo altresì che prima di questa procedura nessuno debba entrare in una classe come supplente: l'esperienza professionale (e/o l'abilitazione) non deve essere costruita sulla pelle degli studenti.

sabato 16 gennaio 2016

Credere

CREDO: IL MONOLOGO DI FRECCIA
(TRATTO DAL FILM “RADIOFRECCIA” DI LUCIANO LIGABUE – 1999)


“Oggi ho avuto una discussione con un amico. Lui è uno di quelli bravi. Bravi a credere a quello in cui gli dicono di credere. Lui dice che se uno non crede in certe cose non crede in niente. Be’, non è vero. Anch’io credo. Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che vuole l'affitto ogni primo del mese… Credo che ognuno di noi si meriterebbe un padre e una madre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa.

Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua.
E allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio. Credo che, se mai avrò una famiglia, sarà dura tirare avanti con trecento mila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto,  difficilmente cambieranno le cose.

Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma credo che il rock and roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli amici… ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso… e credo che da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.


Credo che per credere, certi momenti, ti serva molta energia.”


(Antonio Leotti - Luciano Ligabue: “Radiofreccia – La sceneggiatura, le foto, e altro ancora”, Fandango Libri, Roma, 1999, pgg. 57-58)




Luciano Ligabue                          (Tratto da Radiofreccia –  colonna sonora originale - 1998)


 HO PERSO LE PAROLE

HO PERSO LE PAROLE                                             
EPPURE CE LE AVEVO QUA UN ATTIMO FA                    
DOVEVO DIRE COSE                                          
COSE CHE SAI                                                    
CHE TI DOVEVO                                                   
CHE TI DOVREI
HO PERSO LE PAROLE
PUÒ DARSI CHE ABBIA PERSO SOLO LE MIE BUGIE
SI SON NASCOSTE BENE
FORSE PERÒ
SEMPLICEMENTE
NON ERAN MIE

CREDI
CREDICI UN PO’
METTI INSIEME UN CUORE E PROVA A SENTIRE E DOPO
CREDI
CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DAVVERO
SEI BELLA CHE FAI MALE
SEI BELLA CHE SI BALLA SOLO COME VUOI TU
NON SERVONO PAROLE
SO CHE LO SAI
LE MIE PAROLE NON SERVON PIÙ
MA HO PERSO LE PAROLE
E VORREI CHE TI BASTASSE SOLO QUELLO CHE HO
IO MI FARÒ CAPIRE
ANCHE DA TE
SE ASCOLTI BENE SE ASCOLTI UN PO’

CREDI
CREDICI UN PO’ SEI SU RADIOFRECCIA GUARDATI IN FACCIA E DOPO
CREDI
CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DAVVERO
HO PERSO LE PAROLE
OPPURE SONO LORO CHE PERDONO ME
IO SO CHE DOVREI DIRE
COSE CHE SAI
CHE TI DOVEVO, CHE TI DOVREI
MA HO PERSO LE PAROLE
CHE BELLO SE BASTASSE SOLO QUELLO CHE HO
MI POSSO FAR CAPIRE ANCHE DA TE SE ASCOLTI BENE SE ASCOLTI UN PO’

CREDI CREDICI UN PO’ METTI INSIEME UN CUORE E PROVA A SENTIRE E DOPO

CREDI CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DI PIÙ DAVVERO

CREDI CREDICI UN PO’ SEI SU RADIO FRECCIA GUARDATI IN FACCIA E DOPO CREDI


 https://www.youtube.com/watch?v=pLXBoRkPM7E

venerdì 15 gennaio 2016

"Libertà è partecipazione"

Indubbiamente è importante partecipare, manifestando magari anche in piazza per far valere ciò in cui si crede.
La vera rivoluzione, tuttavia, la si fa agendo quotidianamente secondo gli stessi principi per cui si è manifestato. 
E' la quotidianità individuale che legittima le scelte di ciascuno e dell'intero sistema di cui si fa parte.
Solo così si può affermare di aver davvero partecipato.
E di essere davvero liberi. Coerentemente liberi.

mercoledì 13 gennaio 2016

A scuola di felicità

Si può imparare la felicità? C'è chi sostiene che sì, che attraverso il Coaching ci si possa allenare alla felicità.
L'idea è quella di individuare proprio attraverso la tecnica del  Coaching il talento o i talenti di cui ciascuno di noi è naturalmente dotato. Successivamente il proprio talento dovrà essere sfruttato per poter arrivare a fare ciò che davvero ci piace.
Se è vero, infatti, che siamo felici quando facciamo ciò che ci piace, il segreto della felicità dovrebbe essere nella costruzione di una vita di relazioni in cui ciascuno possa esprimere sé stesso.
Occorrerà naturalmente essere in grado di fare i conti con il proprio passato e ciò potrà essere tanto più complicato quanto più avremo impostato false relazioni con chi ci circonda.
Nei rapporti umani il rischio è infatti quello di voler compiacere coloro cui si vuole bene (i genitori, gli amici, il partner, etc.) scegliendo non ciò che si desidera davvero per sè stessi ma ciò che altri giudicano più adatto a noi.
La costruzione  della propria vita è difficile e complicata ma occorre far sì che tale difficoltà non impedisca di guardarsi dentro a fondo per poter poi determinare le proprie scelte individuando gli obiettivi del proprio benessere in ciò che noi stessi potremmo realizzare. 
Ciò significa innanzi tutto imparare a star bene con sé stessi e non affidare la propria felicità a qualcosa/qualcuno esterno da noi. 
Gli altri potranno certamente arricchire la nostra vita ma se non saremmo noi stessi gli unici da cui dipendere per realizzare i nostri sogni non potremo mai essere felici.

Le ragioni del cuore

"Se ne farà una ragione", gli aveva risposto, quando lui le aveva parlato di Marco, della sua sofferenza, della sua difficoltà ad accettare la loro separazione.
Marco era un suo collega e il suo migliore amico, gli dispiaceva non riuscire a far nulla per lui. E forse proprio per questo, quando l'aveva incontrata, le aveva parlato di lui.
Ora, di fronte a quella risposta, di fronte a quel "Se ne farà una ragione", era ammutolito e imbarazzato.
Ricordava di averli visti felici insieme, una coppia solida e complice che suscitava l'ammirazione (e a volte anche un po' di invidia) degli altri. E poi...
E poi tutto era finito. Senza nessun segnale. Improvvisamente. Come un uragano che aveva travolto la vita di coppia di Marco che, gli aveva raccontato, era convinto che lei fosse la donna della sua vita e con lei sarebbe rimasto per sempre. Gli aveva parlato di lei, dopo averla incontrata, proprio in questi termini: lei era la sua donna ideale, era una storia definitiva.
Ma in amore non esistono le definizioni. L'amore non si definisce. Ha bisogno di cure, quotidiane, costanti, continue. Altrimenti, come una pianta trascurata, muore.
Marco non aveva capito che quell'amore che credeva eterno si stava consumando nella noia quotidiana, nella certezza di una definizione. Aveva dato per scontato quell'amore.
Lei c'era, era lì per sempre. E, certo di questo, non aveva colto i segnali che lei, da un certo momento in poi, aveva cominciato a mandargli.
Usciva sempre più spesso, con un'amica. Con le amiche. Da sola. Comunque senza di lui.
A pensarci bene, a differenza del passato, non sembravano nemmeno più tanto solidi e complici.
Di quel periodo ricordava di averla incontrata qualche volta per caso. Da sola. O con qualche amica. Ricordava anche che, in un paio di quelle occasioni, lei si era lamentata dell'eccessivo carico di lavoro di Marco. "E' a casa, sta lavorando." oppure "Sai, lo vedi più tu di quanto non lo veda io."
Non aveva considerato quelle risposte fino a quando, una mattina di settembre, Marco era arrivato in ufficio in ritardo, scompigliato, trasandato, stravolto. "Mi ha lasciato." Gli aveva detto.
Erano passati cinque anni da allora. Quella coppia non esisteva più, almeno per l'anagrafe.
Tuttavia, nonostante fosse passato un po' di tempo, Marco non riusciva a farsene una ragione.
E come avrebbe potuto? Lui la amava. Di un amore definitivo. Che, una volta conquistato, non ha bisogno di cure. Lei c'era e ci sarebbe stata per sempre. Così aveva pensato lui, il giorno del loro matrimonio.
Tale era la sua convinzione. E questo, forse, gli aveva impedito di vedere negli occhi di lei un'ombra, quell'ombra che, a poco a poco, era diventato grigiore e noia.
Quella stessa convinzione gli aveva impedito di ascoltare i pianti notturni di lei, pianti soffocati per non farsi sentire da lui che, sereno come un angioletto, dormiva al suo fianco.
Era stato difficile per lei prendere atto di quanto stava accadendo. Ma i segnali c'erano. Tutti.
Non riusciva più a vedere negli occhi di Marco quelli del ragazzo che l'aveva incantata al primo sguardo, che l'aveva conquistata con la sua intelligenza e la sua creatività, che l'aveva fatta piangere di gioia e di timore che altre lo seducessero e glielo portassero via, che l'aveva avvolta magicamente e le aveva fatto credere di essere la più fortunata e la più felice di tutte le donne.
Lui la amava ancora. Era quello il suo modo di amare.  Ma lei non lo amava più. Aveva cercato di parlargliene ma lui non era stato capace di ascoltarla.
E quando, dopo aver meditato a lungo, aveva preso la sua decisione, una decisione irrevocabile, gliela aveva comunicata.
Era andata via.
"Se ne farà una ragione", aveva pensato.
Trascurando che, come aveva imparato leggendo "I pensieri" di Pascal, "il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce".
(Vecchio post già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

martedì 12 gennaio 2016

Cose utili e inutili

Io ripartirei da qui. Dall'affermazione di Don Lorenzo Milani "La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene." riportata in "Una lezione alla scuola di Barbiana" (Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pg.11).
E' indubbio che quelle che cinquant'anni fa Don Milani riteneva "cose inutili" attualmente possano essere considerate utilissime, o viceversa.
In generale, riprendendo la citazione del priore di Barbiana, devono considerarsi cose utili "quelle cose che il mondo non insegna".
Attualmente sono tantissime le cose che il mondo non insegna: il rispetto per sè stessi e per gli altri, la passione, la curiosità vera, l'arte di saper aspettare, la bellezza, il sacrificio.
A scuola ci si può (anzi, a mio avviso si deve) dedicare al ballo, alla musica, al teatro etc., a patto che non lo si faccia seguendo mode e fenomeni culturali di basso profilo (che potrebbero al limite essere analizzati per la loro capacità di attrarre le masse).
La scuola che auspico è quella che dia a tutti la possibilità di crescere, di scoprire sé stessi e le proprie potenzialità, di formarsi come persona nel senso più completo del termine, imparando a non farsi schiacciare dalle mode, dalla massa che tutto omologa e appiattisce.

‎(Vecchio post, già pubblicato sulla piattaforma Splinder da Critolao il ‎17 ‎giugno ‎2008 ma oggi come allora attualissimo)

domenica 10 gennaio 2016

Vestita da donna

Ornella era la più brava della classe. I suoi compagni la stimavano, la rispettavano, la coccolavano non solo perché, con generosità, era sempre pronta ad aiutarli nello studio, spiegando loro ciò che non avevano capito durante le lezioni, ma anche perché, in quella classe composta da 25 studenti, era l'unica ragazza.
Una ragazza che frequentava, brillantemente, un Istituto Tecnico ad indirizzo "Elettronica e Telecomunicazioni". Rare le ragazze, in quel tipo di corso. Guardate con scetticismo, soprattutto dai docenti delle discipline tecniche e professionali, ingegneri di sesso maschile convinti della naturale inferiorità della donna.
Ornella, grazie alle sue capacità intellettive, era riuscita a convincere anche loro che, a volte, qualche eccezione può esistere.
Gli ottimi voti ottenuti se li era guadagnati studiando, senza ammiccamenti femminili o gambe e seni scoperti.
Il suo abbigliamento era rigorosamente unisex, nessuna concessione a fronzoli od altro.
Mantenne lo stesso stile per tutti i cinque anni di scuola.
Solo il giorno del colloquio orale degli esami di maturità, arrivò a scuola "vestita da donna".
Le disse proprio così il commissario interno, il professore di Sistemi, vedendola con il lungo abito estivo (una specie di tunica) che lei, quel giorno, aveva indossato.
"Cosa hai fatto, ti sei vestita da donna?"

Ornella arrossì, rispose con un sorriso garbato e, arrivato il suo turno, si sedette e mostrò alla commissione che, anche vestita da donna, aveva un cervello che funzionava. Come, anzi, meglio di quello dei tanti uomini che la circondavano.
(Già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder e successivamente sul blog "La panchina in cima al monte")

Mauro per sempre

Fino alla fine, continuarono a sperare nella sua guarigione. Ci credevano davvero, forse spinti anche dalla forza e dal coraggio di quella giovane madre. Una vera madre. Capace di piangere e disperarsi, ma non davanti a lui. Perché lui non doveva sapere quanto grave fosse la sua malattia. Lui doveva vivere come tutti i suoi compagni, libero di continuare a fare progetti per il futuro, come tutti i sedicenni fanno.

Sì, i suoi insegnanti credevano davvero che ce l'avrebbe fatta. E quando vennero informati che non sarebbe andata così, attoniti continuarono a mantenere quel segreto terribile. Mauro non doveva sapere. I suoi compagni non dovevano sapere.

Così, quel terribile dolore poté essere rivelato a tutti solo in quell'assolato giorno di giugno, il 20 giugno 2007, quando Mauro se ne andò. Ma non li lasciò soli. Era con tutti coloro che lo avevano amato e non lo avrebbero dimenticato.

Vivo nei loro cuori. Per sempre.


"Non muore chi rimane

vivo nel nostro cuore"


"Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura

che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,

da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,

da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,

non voglio che muoia la mia eredità di gioia,

non bussare al mio petto, sono assente.

Vivi nella mia assenza come in una casa.

E' una casa sì grande l'assenza

che entrerai in essa attraverso i muri

e appenderai i quadri nell'aria.

E' una casa sì trasparente l'assenza

che senza vita io ti vedrò vivere

e se soffri, amor mio, morirò nuovamente."

(Pablo Neruda: "Sonetto XCIV" da "Cento sonetti d'amore - Notte")

mercoledì 6 gennaio 2016

Parliamo?

Adorano parlare, i miei studenti.
E non lo fanno, come affermano i colleghi più maligni, per perdere tempo ed evitare di far lezione o un'interrogazione.
Sono pieni di dubbi e vogliono capire: il senso della vita, dell'amicizia, dell'amore...
"Perché?" chiedono spesso, sperando che io possa dar loro la risposta giusta.
E io, di fronte alle loro domande che io stessa mi pongo e che da sempre l'essere umano si pone, non posso fare altro che ascoltare e lasciarli parlare. Confrontandosi, parlando, hanno l'occasione di scoprire che l'ansia, l'angoscia, i dubbi che ciascuno di loro prova sono gli stessi che ciascuno di noi ha provato e prova.
Ecco perché parlarne ci fa bene.
(Già pubblicato con altro account su altro blog e su altra piattaforma il 16 marzo 2009)

lunedì 4 gennaio 2016

"Se tutti gli sfigati, gli sfigati del mondo..."

"Profe," mi dice ad un tratto uno studente "io sono uno "sfigato!".
Sollevo lo sguardo dalle mie carte e lo guardo negli occhi. E' seduto al primo banco, il suo banco fin dal primo giorno di scuola. E' uno studente di prima, attento, volenteroso, partecipe. Almeno con noi docenti.
Non mi sembra però che abbia legato molto con i compagni.
Durante la ricreazione resta spesso in classe con l'insegnante, non esce dall'aula, come fa invece la maggior parte dei suoi compagni.
E' stato proprio durante l'intervallo che, mentre eravamo rimasti in aula da soli, mi ha detto così: "Profe, sono uno sfigato!"
Gli ho chiesto perché ritenesse di esserlo.
Ha cominciato a spiegarmi che sono i suoi compagni a definirlo così: lui continua a fare la vita di sempre, quella che conduceva alle scuole medie.
Studia, fa i compiti, esce con i suoi amici d'infanzia. Non fuma, non beve il sabato sera, non prende pasticche o cocaina, non va in discoteca.
"Capisce, profe? Sono proprio uno sfigato!".
L'insegnante di italiano che è in me vorrebbe dirgli di adoperare un registro linguistico più formale. Ma non è una situazione formale, questa.
E' il grido di aiuto di chi, mentre sta crescendo, si trova a non accontentarsi più di essere accettato dagli adulti. Ha bisogno dell'accettazione del gruppo dei pari. Di cui, tuttavia, non condivide i valori.
"Sai," gli dico "anch'io sono stata una "sfigata", anche se all'epoca non ci definivano così".
Gli dico che ne conosco e ne ho conosciuti tantissimi di sfigati come lui, che spesso preferiscono nascondersi o adeguarsi a modelli che non condividono.
Ma forse sarebbe meglio che tutti gli "sfigati" del mondo si unissero e si opponessero al conformismo di chi definisce gli altri "sfigati" per non ammettere la propria fragilità, la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza.

(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte" - piattaforma Splinder - il 14 novembre 2008)

domenica 3 gennaio 2016

Per sempre

Giura che lo ama. Che resteranno insieme per sempre. Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.
Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 55.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Già pubblicato sul blog "Sala Docenti")

La 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non

era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca

non avevo nemmeno la patente), era la macchina

della madre del mio amico più caro che, appena ne

 aveva la possibilità, ne usufruiva.

La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a

contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come

sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.

Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo 

giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport 

per assistere alle partite della locale squadra di

basket, effettuare testa-coda magistralmente 

calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non 

c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

sabato 2 gennaio 2016

Capodanno

Il primo giorno dell'anno trascorso in una località del cuore, a passeggiare sotto un sole caldo benché sia gennaio, a leggere un romanzo accattivante, chiacchierando con chi più ci sta a cuore. Che altro si può desiderare?

https://www.youtube.com/watch?v=tO7NfLC-ydI


venerdì 1 gennaio 2016

Diana

Diana morì di parto nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, una decina di giorni prima di Natale.
La ricordava bene, o meglio, ricordava il suo viso splendente fissato nella foto sulla lapide della sua tomba. 
Da bambina, insieme a sua madre, aveva visitato spesso quella tomba. Aveva appreso così, proprio da bambina, che nascere, a volte, significa anche morire, proprio come era accaduto alla creatura che Diana portava in grembo.
Era il 1962. Forse allora si moriva molto più spesso di parto.
Nel 2015, ancora, si moriva di parto, si moriva alla nascita. Forse non così spesso, come accadeva ai tempi di Diana.
Ma ancora accadeva.