domenica 27 dicembre 2015

Ragazza da parete

Forse anche lei era una ragazza da parete. 
Da sempre preferiva ascoltare, anche ciò che non veniva detto. 
Ecco perché le sembrava sempre di aver capito come sarebbero andate le cose: ascoltare le consentiva di prevedere ciò che sarebbe accaduto.
Non sempre ciò era un vantaggio, tutt'altro. Ma era così.








https://www.youtube.com/watch?v=EiXWCnKw-eE

sabato 26 dicembre 2015

Tornare

Ogni volta che mi capita di tornare nella regione in cui sono nata e in cui ho passato poco meno di un terzo della mia vita, vengo colta da un senso di estraneità. "Che ci faccio qui?" mi capita di pensare e, contemporaneamente, mi sorprendo a constatare che, in fondo, non c'è nessun luogo in cui vi siano le mie radici.

Sono nata in Puglia ma sono stata portata (o "deportata", come un collega simpatico amava dire a proposito della sua situazione assai simile alla mia) pochi mesi dopo in  Liguria, dove ho trascorso la prima parte della mia esistenza.

Alla Liguria sono tuttora molto legata anche se, già da bambina, c'era chi mi considerava un'estranea. "Napoletana": mi chiamava così qualcuno (da Roma in giù, per qualcuno, tutti sono "napoletani") ed io sentivo il peso dell'essere "diversa".

Quando, a dodici anni, la mia famiglia ritornò nella regione d'origine dove io ero nata, scoprii che anche lì mi consideravano un'estranea. Non conoscevo e non capivo il dialetto, avevo abitudini differenti. In sintesi, anche lì ero considerata diversa.
Inoltre, non apprezzavo nulla di quei luoghi (le spiagge della mia amata Liguria erano belle, anche e soprattutto perchè circondate dalle colline) e mal tolleravo la faciloneria e l'invadenza dei più, che veniva definità simpatia e disponibilità. Per me, taciturna e riservata, non era così.

Cominciai allora a pensare che, appena ne avessi avuto la possibilità, sarei andata via. In Liguria, possibilmente, o in qualunque altro luogo purché fosse più confacente a me stessa. Ero ormai consapevole che sarei sempre rimasta comunque un'estranea o, almeno, senza radici.

Quando, più di un quarto di secolo fa, arrivai a Bergamo, città in cui tuttora vivo, pensai che fosse adatta a me. Considerata comunque in principio un'immigrata "terrona" per lavoro, mi sorprendevo sempre più a familiarizzare con i colleghi lombardi piuttosto che con i pugliesi, i siciliani, i calabresi, i laziali, etc.

Non mi mancavano e non mi mancano né l'olio buono né le mozzarelle di bufala né i pomodori "come i nostri".

Insomma, a Bergamo sto davvero bene. Adoro le sue Mura e la sua bellezza, il suo cielo terso dopo una nevicata o dopo la pioggia, la sua efficienza. L'ho adottata come mia città (o Bergamo ha adottato me).
Così,  benché mi dispiaccia, tutte le volte che riparto dalla Puglia, lasciar lì mia madre ormai anziana e gli amici cui sono più profondamente legata, penso sempre che ogni volta, in fondo, mi pesa tanto tornarvi.

(Rielaborazione di un vecchio post precedentemente pubblicato su altro blog)


Macerie d'amore

Mi guardo intorno e sempre più spesso scopro, intorno a me, macerie d'amore.
Coppie che sembravano perfette, indissolubili, unite per l'eternità, che non esistono più e che anzi sono vittime della sofferenza d'amore, del rancore, della cattiveria, dei sensi di colpa per scelte precedenti che hanno fatto male ad entrambi i partner pur se in maniera a volte opposta.
L'amore può essere eterno. Ma a volte finisce. E quando finisce, prenderne atto fa soffrire. Scoprire che l'altro non ha più lo stesso significato fa soffrire entrambi. E, a volte, altri sono coinvolti nella vicenda.
I figli.
Gli amanti. Che non dovrebbero esserci. Ma ci sono. Esistono. E se sono entrati nella nostra storia è perché ne avevamo bisogno. Niente accade per caso o per capriccio.
Se si è lasciato che qualcuno bussasse alla nostra porta e gli abbiamo aperto, era perché ci mancava qualcosa.
E poi più niente è stato come prima.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 giugno 2010)

Compagno di scuola

Per molti della mia generazione "Compagno di scuola", tratta dall'album "Lilly" di Antonello Venditti e pubblicata nel 1975, è stata una delle canzoni di riferimento. C'era chi pensava con disprezzo al "compagno di scuola" evocato nella canzone, cui, tanti giuravano, mai avrebbero assomigliato. Sbagliavano, come spesso succede.
E molti di noi, attualmente, conoscono perfettamente quelli che davvero non sono diventati "compagni di scuola" e quelli che lo sono diventati ma non lo riconoscono e disprezzano gli altri, identici a loro.
 

 
Davanti alla scuola tanta gente 
otto e venti, prima campana 
"e spegni quella sigaretta" 
e migliaia di gambe e di occhiali 
di corsa sulle scale. 
Le otto e mezza, tutti in piedi 
il presidente, la croce e il professore 
che ti legge sempre la stessa storia 
nello stesso modo, sullo stesso libro, con le stesse parole
da quarant'anni di onesta professione. 
Ma le domande non hanno mai avuto 
una risposta chiara. 
la Divina Commedia, sempre più commedia 
al punto che ancora oggi io non so 
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito
un servo di partito. 


Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene 

perché, ditemi, chi non si è mai innamorato 

di quella del primo banco, 

la più carina, la più cretina, 

cretino tu, che rideva sempre 

proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole, 

gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto 

sotto il banco. 

Mezzogiorno, tutto scompare, 

"avanti! tutti al bar". 

Dove Nietzsche e Marx si davano la mano 

e parlavano insieme dell'ultima festa 

e del vestito nuovo, buono, fatto apposta 

e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te) 

e le assemblee, i cineforum, i dibattiti 

mai concessi allora 

e le fughe vigliacche davanti al cancello 

e le botte nel cortile e nel corridoio,
 
primi vagiti di un '68 

ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare! 

E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te... 

"Compagno di scuola, compagno di niente 

ti sei salvato dal fumo delle barricate? 

Compagno di scuola, compagno per niente 

ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” 

(Antonello Venditti: "Compagno di scuola" - 1975)

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti")

venerdì 25 dicembre 2015

Improvvisamente...

... può succedere che la lettura delle pagine di un libro ti riporti indietro, tra esperienze e ricordi, lontani nella memoria, che si rianimano. Ed ecco, sei di nuovo nel '76 e hai di nuovo 15 anni.
"Non mi piaceva fingere di capire, ma mi faceva comodo: così almeno nessuno mi guardava storto o se la prendeva con me dicendomi che ero una qualunquista. Parola che allora si usava molto, come anche fascista. E se ti dicevano fascista o qualunquista, credo volesse solo dire che non facevi politica. Non era bello, eri finito e nessuno ti voleva più."

La citazione è tratta dal romanzo di Paola Mastrocola: "Più lontana della luna", Ugo Guanda Editore, Parma, 2007, pg. 76

(Post pubblicato sul blog "Sala docenti" il 28 dicembre 2007)

A volte spariscono

I miei alunni dicono che sono fissata. E' vero, lo sono. Molto fissata. Puntigliosa. Meticolosa.
Entro in classe, in qualunque ora della mattinata, e faccio l'appello. "Ma profe" - mi dicono -"gli assenti sono già segnati, non è la prima ora, questa."
Vero. Peccato però che può accadere (è accaduto) che a volte gli studenti spariscano. Vanno via. Escono dall'Istituto e non tornano più in classe. E quando lo si scopre, di chi è la colpa, se non dell'insegnante?
"E' l'insegnante che deve controllare che durante le ore di lezione nessuno vada via." Così di sentì dire una collega dal suo Dirigente Scolastico il giorno che, alla quarta ora (quella dopo l'intervallo) si accorse che due studenti non erano rientrati in classe uscendo dall'Istituto. "Bisogna fare l'appello sempre, appena si entra in classe, e segnalare le anomalie." Così parlò il Dirigente Scolastico.

Ed io, da quel giorno, appena entro in classe faccio l'appello. Non si sa mai. Perchè accade (è accaduto) che gli studenti a volte spariscono.

Mobilitazione (seconda parte)

Ci si mobilitò molto durante quel mio primo anno di scuola superiore. Le occasioni non mancavano mai ma ciò che portò all'occupazione della scuola furono il rigido regolamento d'Istituto (che, tra l'altro, vietava di portare a scuola qualunque altro materiale che non fosse strettamente scolastico "Quindi, anche il "Corriere della Sera" o "La Stampa"" come sosteneva il leader moderato, così veniva definito a causa della sua appartenenza alla federazione giovanile del PCI) e le precarie condizioni dell'Aula Magna che non consentivano di contenere più di cinque classi dell'Istituto ed impedivano, di fatto, lo svolgimento dell'assemblea plenaria di tutti gli studenti dell'Istituto.
L'occupazione passò soprattutto grazie ai voti favorevoli di noi studenti di quarta ginnasio. Inutile dirlo: subivamo il fascino dei leader, "moderati" o dell'estrema sinistra che fossero.
Leader carismatici. Autoritari. Quasi stalinisti. Approvata l'occupazione, concessero appena un quarto d'ora per decidere se volessimo rimanere a scuola o se volessimo "democraticamente" uscire dall'Istituto "okkupato".
Per uscire, io, Laura e un'altra nostra compagna di classe scavalcammo la finestra del pianterreno (il primo giorno) e ci facemmo venire a prendere dal padre della nostra compagna, un poliziotto che naturalmente si presentò in divisa. "L'ha chiamata il preside?" chiesero i capi. "No, devo prendere mia figlia e le sue amiche." rispose lui. Peggio andò ad un mio compagno di classe che si era portato anche il sacco a pelo e che venne prelevato dal suo genitore che lo afferrò letteralmente per le orecchie.
Durante l'occupazione, chi era a scuola non poteva pensare di stare a bighellonare (almeno di giorno, di notte non so, visto che non ebbi l'occasione di rimanervi).
Tutti dovevano seguire almeno un seminario. C'erano quelli che trattavano di filosofia politica ed erano di fatto disertati e quelli che affrontavano lo studio e l'analisi dei decreti delegati, la nuova proposta di regolamento da dare al nostro Istituto e varie problematiche sociali come la condizione femminile e l'autodeterminazione delle donne. Seguii quest'ultimo e scoprii una realtà che fino a quel momento ignoravo: la piaga degli aborti clandestini.
In uno dei due pomeriggi i leader organizzarono un concerto: ho ancora il ricordo delle note e delle parole delle canzoni degli Inti Illimani e di "in fila per tre" di Bennato e "La locomotiva" di Guccini e "Pablo" di De Gregori.
Al terzo giorno l'occupazione finì. Armati di secchi e stracci ripulimmo tutto sotto gli occhi vigili di bidelli, docenti e preside.
Inutile dire che la promessa dell'assessore comunale competente di "costruire una scuola sicura ed adeguata" rimase tale e solo cinque anni dopo essermi diplomata venni a sapere che finalmente, era appena stata inaugurata la nuova sede dell'Istituto.
Di quegli anni conservo vivo questo ricordo e una consapevolezza: i nostri leader, di fatto, sostituivano i docenti quando organizzavano qualunque iniziativa che riguardasse strettamente l'attivismo degli studenti. Erano rigidi ed autoritari, proprio come i docenti che dicevano di contestare. Non so se qualche insegnante, magari più "democratico" indirizzasse le loro scelte.

Di sicuro, durante le assemblee degli studenti, i docenti non erano ammessi. Per nessuna ragione. Nemmeno i più "democratici".

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti" - Per motivi di privacy alcuni dati sono stati cambiati ma sostanzialmente la vicenda narrata è realmente accaduta)

Mobilitazione (prima parte)

Appena arrivata al liceo, cominciai a sentir parlare di "mobilitazione".
Era passato poco più di un lustro dal periodo delle grandi contestazioni studentesche, i decreti delegati erano entrati in vigore da circa due anni e tutti, anche coloro che li consideravano un "contentino" concesso dal potere costituito per placare la rivolta studentesca, cercavano di utilizzarli al meglio: erano comunque un'occasione di democrazia nella scuola, un'occasione di partecipazione e, dunque, parafrasando Gaber, di libertà.
Certo, le ore mensili di assemblee concesse erano ben poca cosa rispetto alle assemblee permanenti di qualche stagione prima, ma gli studenti non si perdevano d'animo.
Mi accadde così di assistere, nel dicembre del 1975, alla convocazione immediata di un'assemblea non autorizzata.
I leader del movimento studentesco della mia scuola bussarono alla porta, salutarono l'insegnante di lettere (al ginnasio di solito in aula c'è sempre l'insegnante di lettere, dato che svolge le sue 18 ore settimanali su una sola classe) e dissero: "Vorremmo avvisare gli studenti che tra mezz'ora è convocata un'assemblea non autorizzata degli studenti, assemblea che si svolgera nel cortile della scuola. Se volete partecipare, ed è un vostro diritto, lasciate l'aula e raggiungeteci in cortile." Salutarono e se ne andarono.
Noi ci guardammo perplessi e poi rivolgemmo uno sguardo interrogativo verso l'insegnante. Avevamo tutti tra i tredici e i quattordici anni. Qualcuno di noi forse era un po' più informato ma di politica, intesa in senso lato, non capivamo quasi nulla.
L'insegnante, una bella donna di circa 35 anni, ideologicamente orientata, senza strafare, a sinistra, non disse nulla. Aspettò le nostre domande. Parlò Lara, la più brava della classe nonché rappresentante degli studenti.
"Possiamo farlo?" chiese.
"In teoria no, dato che non sareste autorizzati e potreste incorrere in un provvedimento disciplinare del Consiglio di Classe o del Preside. In pratica, se volete, fatelo, ma ve ne assumerete la responsabilità. Qualora decidiate di andare, sappiate che per domani avevo intenzione di spiegare tale argomento di latino. Vorrà dire che lo studierete per conto vostro e porterete la versione relativa a pagina xx."
Così disse.
Io e Laura, la mia compagna di banco, ci guardammo. Se fossimo andate, cosa che morivano dalla voglia di fare e ci era bastato guardarci per saperlo, avremmo dovuto fare i conti con l'ira funesta dei nostri genitori. Però volevamo capire, volevamo sapere.
L'insegnante riprese la lezione.
Arrivata l'ora dell'assemblea non autorizzata, la rappresentante alzò la mano e, su cenno dell'insegnante che la autorizzava a parlare, disse: "Professoressa, mi perdoni, ma io vorrei partecipare a quella assemblea, assumendomene le responsabilità."
Raccolse i suoi libri, salutò, si alzò dal suo banco e si avvicinò alla porta. Immediatamente, tutti noi della IV C seguimmo il suo esempio. Guardammo dispiaciuti, ma non impauriti, l'insegnante e raggiungemmo il cortile.
Là c'erano altri studenti. Una buona parte di studenti. Non tutti.
Uno dei leader cominciò a parlare. "E' iniziata la mobilitazione!" urlò alla folla.

Ed io, guardando Laura, pensai che era iniziata anche la mia mobilitazione. (continua)

(Post già pubblicato su "Sala docenti" - Per rispetto della privacy alcuni dati sono stati cambiati ma, sostanzialmente, la vicenda è realmente accaduta)

Compiti per le vacanze

Li ho sempre detestati, sin da quando, bambina, mi venivano assegnati. Mi riducevo a svolgerli l'ultimo giorno di vacanza, tra gli sguardi torvi dei miei che mal tolleravano quella pessima abitudine. Ma io pensavo (e penso tuttora) che le vacanze siano sacre e se sono sacre non devono essere dedicate ai compiti ma ad altro rispetto alle abituali attività.
I miei studenti lo sanno: assegno sempre pochi (o non ne assegno affatto) compiti per le vacanze. Al massimo indico con abbondante anticipo qualche libro da leggere o una poesia da imparare a memoria.
Ecco perché io stessa non mi sogno nemmeno di correggere i pacchi di compiti durante le vacanze di Natale. 
Quando ne ho (quest'anno non ne ho) lo faccio solo a partire dal 7 gennaio. 
Ciò significherà che, per par condicio, non potrò controllare i compiti o interrogare il 7 gennaio.

La vacanza è sacra e deve essere rispettata. Vale per me come per i miei studenti.

(Post già pubblicato su "Sala docenti")

Il trenino a scartamento sociale (ricordi del Natale)

C'è, nei ricordi di ciascun adulto, la memoria di un Natale particolarmente significativo perché  magico o, come nel caso dell'autore del post pubblicato di seguito, decisamente istruttivo.


Il trenino a scartamento sociale

Il Natale del 1969 lo ricordo da sempre per due eventi che lo hanno caratterizzato. Il primo evento è stato il coronamento di un sogno di bambino, mentre il secondo ha rappresentato un passo verso la crescita di quel bambino.
Quell'anno dicembre arrivò come sempre con i suoi riti: la chiusura della scuola per le vacanze natalizie, l'affannarsi di mia madre a preparare i dolci della tradizione unito ad  un ciclo di pulizie extra della casa sotto l'egida del “caso mai viene qualcuno”.
Io avevo sette anni e pregustavo, come tutti i bambini di quella età, l'arrivo del Natale con l'aspettativa del regalo e delle serate da passare in piedi sino a tardi con gli adulti.
Quell'anno però era successa una cosa straordinaria per il mio paese di origine. Immediatamente dopo l'estate, come riflesso ritardato del boom economico, era stato aperto nel centro della città il magazzino Standa.
In pratica l'apertura del punto Standa rappresentò una novità per tutti, ma in particolare per noi bambini dell'epoca, in quanto all'interno era presente il reparto giocattoli. A ripensarci oggi mi viene quasi da ridere se considero le dimensioni degli odierni Centri Commerciali, ma per quegli anni era quanto di più spettacolare si potesse vedere. 
Il reparto giocattoli si componeva di due scaffali contrapposti lunghi alcuni metri nei quali erano esposti i giocattoli.
Sino ad allora i giocattoli erano acquistabili presso l'unico negozio presente in città oppure sulle bancarelle del mercato settimanale, ma mai si era visto un tale assortimento.
La cosa ancora più straordinaria fu che per tutto il mese di dicembre furono allestiti dei tavoli dove alcuni giocattoli erano fruibili   e,  udite udite, si potevano toccare e ci si poteva giocare.
Io rimasi affascinato da tutta quella novità ed alla fatidica domanda “Cosa chiedi a Babbo Natale?” io  espressi il mio desiderio di avere in regalo un trenino elettrico.
Arrivò la tanto sospirata notte di Natale e con  essa il momento di ricevere i regali. Babbo Natale mi aveva ascoltato, beh, non proprio bene, sarà stato per via dell'età.....
Mi fu regalato un trenino con carica a molla che girava lungo dei binari di plastica formanti  un ovale non più grande del tavolo della cucina.
Io ero contento lo stesso e giocai quasi ininterrottamente per i giorni seguenti.
Con una scatola di scarpe che forai sui lati dotai la mia personale linea ferroviaria di una rudimentale galleria.
Dopo alcuni giorni ebbi l'occasione di andare a casa di un mio compagno di classe per fare insieme i compiti assegnati per le vacanze, e la prima cosa che mi disse accogliendomi in casa fu che come regalo di Natale aveva ricevuto un trenino.
Sul momento io risposi che anche io avevo ricevuto lo stesso regalo, ma fu quando vidi il suo trenino che mi accorsi che i due oggetti, pur appartenendo allo stesso concetto di giocattolo, erano sostanzialmente diversi.
Il suo trenino era bellissimo. Era tutto in metallo e correva su dei binari di acciaio scintillante, inoltre l'intero trenino era collocato all'interno di un plastico che riproduceva un paesaggio alpino con tanto di montagna attraversata da un tunnel nel quale il trenino passava illuminando l'interno con i suoi piccoli fari anteriori.
Insomma, un abisso tra il mio trenino e quella meraviglia, e mi resi rapidamente conto che nonostante l'essere seduti nello stesso banco ed indossare il grembiule dello stesso modello e colore le uguaglianze finivano li e che quel trenino era a “scartamento sociale”.
(Ringrazio Anonimo che mi ha fornito questo testo autorizzandomi a pubblicarlo qui)


mercoledì 23 dicembre 2015

Feste scolastiche

Se le feste scolastiche (di Natale, di Pasqua, di fine anno, di quel che è) devono limitarsi ad essere la più becera riproposizione dei modelli di divertimento della società contemporanea, sono ASSOLUTAMENTE contraria alle feste scolastiche.

sabato 19 dicembre 2015

Che fare?

"Che fare?" mi sento spesso chiedere da genitori alle prese con figli adolescenti indolenti, sgarbati, incontenibili, irritanti.

"Eppure" sostengono "fino a qualche tempo fa era tanto tranquillo...".

A me, sinceramente, verrebbe da rispondere che no, quel ragazzino, tranquillo, da che io lo conosco (e sono ormai molti anni), non lo è mai stato. Era indisponente, prepotente, egocentrico e, soprattutto, abituato a vedere appagata ogni sua richiesta non appena fosse formulata. Che cosa è cambiato, adesso? E' cambiato il valore, la qualità delle sue richieste.

Un adolescente ha esigenze diverse rispetto a quelle di un ragazzino di tre, cinque, sette anni. Dal suo punto di vista egli continua ad essere come è sempre stato.

Il genitore, invece, pensa che sia arrivato il momento di dire no. Ma ai "no" ci si deve abituare fin dalla più tenera età. Altrimenti si penserà, come alcuni adolescenti fanno, di subire un sopruso, di perdere un diritto acquisito. Chi di noi ha mai voluto rinunciare ad un diritto acquisito?

Ecco perché è importante che i genitori stabiliscano, da subito, regole precise e coerenti nell'educazione dei propri figli. Naturalmente tali regole dovranno essere adeguate all'età del bambino, ma non si può assolutamente pensare di far vivere come un selvaggio il proprio pargolo pensando poi di addomesticarlo quando diventerà più grande, stupendosi poi della difficoltà di farlo.

Vivere con un adolescente è indubbiamente difficile, ma lo è ancora di più quando ci si trova alle prese con un adolescente maleducato o ineducato. A cui è stato detto, magari in nome di un maggior presunto amore, troppe poche volte "NO!".





"Tu non mi vuoi bene!"

"Quante volte ve lo siete sentito dire dai vostri figli in tono accusatore?

E quante volte avete resistito alla tentazione di spiegar loro quanto li amavate?

Un giorno, quando i miei figli saranno abbastanza grandi da capire la logica che spinge una madre a comportarsi in un certo modo, glielo dirò.

Ti ho amato abbastanza da chiederti continuamente dove andavi, con chi e a che ora saresti tornato.

Ti ho amato abbastanza da insistere perché ti comprassi una bicicletta con i tuoi soldi, anche se noi potevamo permettercela e tu no.

Ti ho amato abbastanza da star zitta e lasciare che scoprissi da solo chi era l'amico che ti eri scelto.

Ti ho amato abbastanza da costringerti a restituire al proprietario del negozio la cioccolata già morsicata e confessare: <<L'ho rubata>>.

Ti ho amato abbastanza da restar lì come un gendarme per più di due ore a guardarti pulire la stanza, un lavoro che io avrei potuto fare in un quarto d'ora.

Ti ho amato abbastanza da dire: <<Sì, vai pure al luna park. Non importa se è il giorno della mamma>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che vedessi la rabbia, la delusione, il disgusto e le lacrime nei miei occhi.

Ti ho amato abbastanza da non scusarmi mai con gli altri per le tue mancanze o cattive maniere.

Ti ho amato abbastanza da ammettere di aver avuto torto e chiederti scusa.

Ti ho amato abbastanza da ignorare quello che dicevano o facevano <<le altre madri>>.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che inciampassi, cadessi, ti facessi male, sbagliassi.

Ti ho amato abbastanza da lasciare che ti prendessi le responsabilità delle tue azioni, a sei, come a dieci, o a sedici anni.

Ti ho amato abbastanza da sospettare che avevi mentito sulla presenza dei genitori del tuo amico a quella festa, e lasciar correre... dopo aver scoperto che non mi sbagliavo.

Ti ho amato abbastanza da metterti a terra, lasciarti andare la mano, non rispondere alle tue suppliche... perché imparassi a stare in piedi da solo.

Ti ho amato abbastanza da accettarti per quello che sei, non per quello che avrei voluto che fossi.

Ma soprattutto ti ho amato abbastanza da continuare a dire <<No>> anche sapendo che mi avresti odiato. E' stata questa la decisione più difficile."

(Il brano dal titolo "Tu non mi vuoi bene" è tratto da: Erma Bombeck: "Se la Vita è un piatto di Ciliege, perché a me solo i Noccioli?", Edizioni Club del Libro su licenza della Longanesi & C., Milano, 1981, Edizione Longanesi: 1980, pgg. 210 - 212)
(Già pubblicato su altra piattaforma l'8 febbraio 2010)

Il coraggio di essere adulti

Non è giusto, non è onesto continuare a prendersela con i più giovani, accusarli di inedia, rimproverarli perché incapaci, svogliati, sfiduciati o anche eccessivi, immorali, disincantati.
In qualità di adulti abbiamo grosse responsabilità: abbiamo preteso di restare per sempre giovani, abbiamo rifiutato di crescere diventando amici dei più giovani, strizzando l'occhio e agevolandoli in un percorso di vita che era piuttosto un eterno giro di giostra, un paese dei balocchi in cui ci si divertiva solamente e non si conoscevano il dolore, la sofferenza, la fatica di affrontare le difficoltà, la fatica di crescere.
Adesso però ci si rende conto che i più giovani fanno fatica ad affrontare la quotidianità, si annoiano o sembrano incontentabili. Ricorrono ad artifizi per sopportare la fatica di crescere, di vivere.
Forse è arrivato il momento di cambiare rotta. E di seguire i consigli di chi, come Paolo Crepet (vedi: Paolo Crepet: "L'autorità perduta - Il coraggio che i figli ci chiedono", Einaudi, Milano, 2011), invita gli adulti che per anni hanno abdicato al ruolo di educatori, ad avere coraggio: il coraggio di insegnare ai più giovani ad affrontare e superare le difficoltà, le fatiche, le ansie, le tensioni, gli ostacoli che la vita inevitabilmente comporta per renderli forti, desiderosi di affrontare le sfide e vincerle.
(Già pubblicato sul blog "Sala Docenti")

venerdì 18 dicembre 2015

Donne senza figli

Tra i miei post precedentemente pubblicati su altra piattaforma e su altri blog, questo, scritto il 25 gennaio 2009, è risultato essere il più seguito, il più commentato, il più criticato.

"Quand'ero bambina, ricordo che i miei genitori frequentavano spesso, oltre ad un'altra coppia con figli della stessa età mia e di mio fratello, una coppia senza figli.

Ho ancora bene in mente lo sguardo e gli atteggiamenti di quella donna che guardava noi bambini con tenerezza, malinconia e, forse, una punta di invidia.

A me, lo confesso, faceva quasi paura. Dai discorsi che sentivo pronunciare dagli adulti, mi ero convinta che una "normale famiglia" dovesse comprendere un padre, una madre e (condizione necessaria) almeno un figlio. Sventurate erano dunque le donne sposate senza figli, sventurata era quella signora che compensava la sua voglia di maternità frequentando coppie con figli su cui riversava il suo affetto.

Sinceramente, già da allora, a me non piaceva l'idea che il mio destino di donna fosse quello di sposa e madre. Nei miei giochi con le bambole, immaginavo sempre di essere una suora, un'insegnante, una benefattrice che dovesse prendersi cura dei bambini. Le mie bambole non erano mai i miei figli.

Crescendo, grazie anche alle frequentazioni ed agli studi compiuti nonchè all'evoluzione dei costumi, ho elaborato l'idea che una coppia potesse essere una famiglia anche senza avere dei figli. La maternità e la paternità non dovevano essere intese come un mero fatto biologico o come un dovere, né come una necessità o un compito dell'individuo ma come una scelta. Una scelta libera, responsabile e condivisa della coppia.

Da parte mia, non mi sentivo adatta ad essere madre, non mi interessava esserlo, non volevo esserlo. Era una scelta libera e responsabile, calibrata sulla mia personalità. Una scelta condivisa con il ragazzo che è diventato mio marito e che, crescendo, aveva individualmente elaborato la stessa mia identica concezione. Il nostro rapporto è cresciuto così. Siamo una felice coppia senza figli che frequenta prevalentemente coppie senza figli. Perché, che piaccia o no, gli interessi, gli obiettivi, i ritmi di vita tra i due modelli familiari sono completamente diversi.

Ciò che spesso mi ha sorpreso ed ancora oggi, a volte, mi sorprende é vedere lo sguardo indignato di chi, nel momento in cui affermo che non ho figli per libera scelta, mi guarda come se fossi una pazza o una strega.

A parte il fatto che ritengo davvero inopportuno chiedere a chiunque, anche alle persone con cui si è in confidenza, il motivo per cui una coppia non abbia figli.

Credo che siano questioni private e delicatissime che, al limite, possono essere confidate da parte di chi le vive ma su cui, a mio avviso, non é cortese informarsi.

Questo perché se tale domanda lascia me (e le altre donne che hanno fatto la mia stessa scelta) completamente indifferente, per alcune, quelle che hanno sognato per tutta la vita di poter cullare, coccolare e stringere al petto il proprio figliolo e per una serie di motivi non sono riuscite a diventare madri, la stessa domanda può essere motivo di malinconia e frustrazione, degna di commiserazione, magari, da parte dell'indelicato interlocutore.

Tuttavia, per quanto mi riguarda, visto che con il tempo ho imparato che è inutile discutere con chi non vuole capire, quando mi si chiede perchè non abbia figli, dopo la fase in cui mi sono divertita a sfidare i miei interlocutori, assumo un'espressione afflitta e sussurro: "Non ne sono venuti." . In questo modo, rispetto la normalità, l'ipocrisia e la banalità che i più apprezzano."

sabato 28 novembre 2015

Gli ingranaggi

Che tristezza per coloro che accettarono
di essere gli ingranaggi di una macchina
credendo che fosse la loro voce
i monotoni rumori della macchina

Che orrore quando vedo
mani senza testa muovere la macchina
con movimenti ritmici, gli stessi,
che una voce di altri comanda

Che inaudito schifo
osservare occhi e bocca
di chi per conto di altri parla e guarda
anche loro ingranaggi della macchina

Che odio infinito
per chi uccide con mani altrui
quando con carne costruisce ingranaggi
scavando una fossa per la vita

Che amore, culto, ammirazione
verso coloro che si battono sempre
perché scoprano voce gli ingranaggi
e nella vita trovino uno scopo

Alekos Panagulis, SFM. (Carcere Militare di Boiati) Isolamento. Luglio 1971 (In : Gian Paolo Serino: "USA & GETTA  Fallaci - Panagulis    Storia di un amore al tritolo", Aliberti editore, Reggio Emilia, 2006, pgg. 79, 80).

venerdì 27 novembre 2015

Scuola di valutazione e valutazione a scuola

Probabilmente sarò in controtendenza rispetto a molti colleghi. A me, tuttavia, la Riforma della scuola, le prove Invalsi e le varie proposte di cambiamento che stanno interessando il mondo della scuola non dispiacciono affatto. Da sempre ritengo che i test Invalsi possano dare indicazioni per valutare l'efficacia dell'azione di insegnamento/apprendimento.
Si badi bene: non devono essere considerate l'unico strumento ma uno degli strumenti, anche abbastanza oggettivo, di cui ci si avvale.
Ugualmente, sono dell'idea che l'attività del docente debba essere valutata. Le modalità di tale valutazione possono essere diverse ma devono esserci. In tutti i sistemi organizzativi esiste una valutazione ed è su quella che, a mio avviso, ci si deve basare anche per stabilire i diversi criteri di carriera e retribuzione.
Sinceramente sono stanca di fronteggiare proposte sindacali che mirano a difendere l'indifendibile e a puntare sulla quantità piuttosto che sulla qualità; sono stanca, per esempio, di dover assistere a lezioni (o presunte tali) di colleghi che passano il tempo a leggersi il giornale in classe mentre gli studenti vengono abbandonati a guardare un film su cui poi non devono produrre nulla: nessuna discussione, nessuna riflessione né scritta né orale (e non entrerò nemmeno in merito sulla qualità delle proposte cinematografiche). 
La professionalità docente è sicuramente difficile da valutare ma che non lo si possa fare è una leggenda diffusa probabilmente da coloro che non hanno alcuna intenzione di essere valutati, almeno formalmente, visto che ciascuno di noi docenti viene quotidianamente valutato e rispettato (o meno) per ciò che fa.

mercoledì 25 novembre 2015

Passione politica

Furono la mia insegnante di Lettere del ginnasio e, successivamente, la mia insegnante di filosofia del liceo a farmi appassionare alla politica.
"L'uomo è un animale politico, come diceva Aristotele, ed ogni nostra scelta è una scelta politica, anche se non ce ne rendiamo conto." , così mi è stato insegnato.
E, in effetti, quelli erano anni di grande impegno politico in cui erano coinvolte soprattutto le giovani generazioni. Erano gli anni de "Il personale è politico", in cui diventava necessario per ciascuno di noi mostrare impegno ed interesse attento verso le grandi questioni, nazionali ed internazionali. Guai a non interessarsene, si veniva tacciati di qualunquismo, nella migliore delle ipotesi, o di fascismo.
Questo era ciò che accadeva nel mio liceo e nella cittadina del sud d'Italia in cui vivevo. Ammettere di apprezzare un disco di Battisti o di Baglioni, di leggere una rivista femminile o, peggio ancora, di seguire il calcio poteva diventare occasione di disprezzo da parte degli "impegnati" di sinistra.

Inizialmente abbracciai con entusiasmo e passione l'impegno politico. Frequentavo le sezioni di partito e i collettivi femministi e scoprivo un mondo diverso da quello in cui avevo creduto di vivere fino a quel momento. Certo, c'era qualcosa che non mi convinceva e non mi piaceva. I picchetti e il servizio d'ordine per le manifestazioni e gli scioperi, ad esempio. Le spedizioni punitive contro "i fasci che hanno picchiato i compagni". La censura preventiva verso gli interventi di coloro che la pensavano diversamente durante le assemblee d'istituto al grido "I fascisti non devono parlare!".
Non mi stava bene e cominciai a dirlo. Venni tacciata di essere fascista anch'io. All'epoca (erano gli anni Settanta) era un grave insulto. Non mi importava. Non era quello ciò che mi avevano insegnato essere la politica, l'arte di partecipare alla vita pubblica. Non mi interessavano le etichette. Mi interessavano le idee. Seguace dei principi dell'Illuminismo, facevo mio l'aforisma di Voltaire: "Non sono d'accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee".

Esprimevo così la mia passione politica. Ancora oggi la esprimo così. Ascoltando gli altri, documentandomi, disprezzando i toni aggressivi di chi attacca preventivamente l'avversario schernendolo ed insultandolo. Ciò che mi interessa è capire: capire le ragioni degli uni e degli altri, al di là degli schieramenti e delle posizioni preconcette.
(Revisione di post già pubblicato) 

Donne e martiri

Ricordo di aver partecipato, più di una volta, da bambina, quando frequentavo la mia parrocchia, alla messa in scena di questa canzoncina che, sebbene avesse un motivetto vivace, raccontava del martirio di s. Caterina, che si festeggia oggi, 25 Novembre, un martirio corrispondente a un femminicidio.
La violenza contro le donne, al di là del credo religioso, rimane ancora oggi una piaga dura da combattere, in Italia e nel resto del mondo e parlarne, benché apra, a volte, ferite non rimarginate, è un dovere quotidiano di noi tutti.
""Alzati, o Caterina -
pirulin pirulin pirulin zum zum -
alzati, o Caterina -
pirulin... -
se no ti ucciderò..." (3 v.)
"Uccidimi, mio padre, -
pirulin pirulin pirulin zum zum -
uccidimi, mio padre, -
pirulin... -
ma io non m'alzerò..." (3 v.)
Al colmo del furore -
pirulin pirulin pirulin zum zum -
al colmo del furore -
pirulin... -
suo padre la colpì... (3 v.)
E gli angeli del cielo -
pirulin pirulin pirulin zum zum -
e gli angeli del cielo -
pirulin... -
cantaron:"Gloria!"... (3 v.)"
 

domenica 15 novembre 2015

Ignoranza, razzismo, fanatismo

Oggi il mio pensiero va a N. e a tutti i miei studenti ed ex studenti di religione musulmana che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui, spesso, ho avuto l'opportunità di discutere e riflettere su quanto la scuola e l'istruzione possano fare per costruire un mondo migliore, un mondo di pace.
A N., alcuni anni fa, dedicai su "Sala Docenti" questo post.


"E' turbata. E ne ha ben donde. Le hanno appena detto che il velo che indossa crea qualche problema per l'inserimento in azienda previsto durante il periodo di stage.

"E' un paese di ignoranti e razzisti, questo!" si sfoga. E poi subito aggiunge: "Non tutti, profe, non tutti!" mentre i suoi compagni le esprimono contemporaneamente solidarietà ed indignazione.

Ne parliamo in classe. A scuola, nella nostra scuola, non esistono distinzioni. E a lei, dice, non era mai capitato di sentirsi così umiliata, così fuori posto.

Le dico che a scuola sono banditi il razzismo e l'ignoranza che lo genera, ma in giro, purtroppo, esistono ancora, non da parte di tutti, come lei ha correttamente sottolineato, atteggiamenti di razzismo, più o meno acclamati, che non sono altro che il frutto del pregiudizio e della non conoscenza. L'ignoranza, appunto."
 

venerdì 13 novembre 2015

Imparare a pazientare

Nella scuola occorre pazienza. I precari della mia generazione hanno aspettato 10 anni prima di avere la possibilità di abilitarsi; personalmente sono entrata in ruolo dopo 17 anni di precariato e conosco persone che, pur avendo superato i concorsi abilitanti, sono entrati in ruolo dopo 20 - 25 anni. Molti dei colleghi che in questi giorni hanno ricevuto la lettera di Renzi hanno alle spalle tra i 12 e i 20 anni di precariato. E' un male che i governi precedenti hanno creato ...e che indubbiamente deve essere risolto ma confesso che personalmente mal tollero chi, con solo un paio d'anni di precariato alle spalle, si dichiara già stanco di esserlo. Detesto le forme contrattuali precarie che negli ultimi 20 anni sono state le uniche, o quasi, ad essere applicate, ma non condivido nemmeno i piagnistei di chi pretende tutto e subito, in nome di un presunto immediato diritto di ingresso nel mondo della scuola che solo negli ultimi anni ha cominciato a fare un po' (ma nemmeno molta!) selezione in ingresso. (Riflessione ad alta voce)

Lettere ai docenti

"[...] Il Suo lavoro è persino più importante del mio. Lei si occupa di educazione e non c'è priorità più grande per l'Italia dei prossimi anni. Lei lavorerà nella scuola più tempo di quanto io starò al Governo. Lei ha la possibilità di tutti i giorni di valorizzare i sogni e le passioni dei nostri ragazzi che sono il bene più prezioso che abbiamo. La prego, dal profondo del cuore: non ceda mai al vittimismo, alla rassegnazione, alla stanchezza. Sia sempre capace di affascinare i suoi studenti, di spronarli a dare il meglio, di invitarli a non cedere al cinismo e alla meschinità.
Lei ha studiato, ha sicuramente un'ottima preparazione, conosce bene la materia che insegna. E noi siamo orgogliosi della scuola italiana che con tutti i suoi limiti ha punti di forza straordinari. Abbiamo bisogno che indipendentemente dalle differenze religiose, politiche, culturali, civili, economiche la scuola dia ai nostri ragazzi l'opportunità di credere nei loro mezzi. Di valorizzare i propri talenti. La scuola è la più grande opportunità per dare a tutti – nessuno escluso – la possibilità di trovare la propria strada per la felicità. Lei ha una responsabilità meravigliosa e difficilissima, non si stanchi mai di crederci, anche quando Le sembrerà difficilissimo. L'Italia di domani sarà come la faranno i professori di oggi.
Noi faremo di tutto per aiutare questo lavoro, cercando di fare sempre di più per la scuola di questo affascinante e struggente Paese.
Il mio saluto più cordiale, congratulazioni e buon lavoro.
Matteo Renzi"
E' questa la parte finale dell'e-mail che i colleghi, contattati per una proposta di assunzione come docenti della scuola pubblica, hanno ricevuto in questi giorni.
Alcuni me l'hanno mostrata commossi, altri non l'hanno nemmeno letta fino in fondo, ritenendola l'ennesima occasione da parte del Presidente del Consiglio per creare consenso.
Non entro nel merito della questione.
So solo che se questa lettera fosse arrivata a me, nel momento in cui, dieci anni fa, sono stata assunta a tempo indeterminato dopo diciassette anni di precariato, sarei stata felice e ne sarei stata orgogliosa.

mercoledì 11 novembre 2015

Educazione ai sentimenti

Si può educare ai sentimenti? E lo si può fare a scuola? Io penso di sì. E ne sono così convinta al punto che spesso dedico un modulo delle mie lezioni all'amore. Del resto, la storia della letteratura e dell'arte non possono prescindere dall'amore. Al di là dei testi classici, soprattutto nelle prime classi, utilizzo spesso, prima o insieme ai testi letterari classici (ad esempio, il canto V dell'Inferno e l'amore passionale e travolgente di Paolo e Francesca; l'amore contrastato e drammatico di "Romeo e Giulietta" nella omonima tragedia di Shakespeare, ecc.) film più o meno recenti (e più o meno accattivanti) dedicati all'argomento.

Mi è capitato così di utilizzare i tre film dal titolo, in Italia, "Il tempo delle mele". Sia chiaro: solo il primo e il secondo film sono tra loro legati e raccontano le vicende di Vic, adolescente alle prese con le prime infatuazioni e i primi innamoramenti.

Il terzo film, come vari dizionari specializzati sottolineano, non ha nulla a che vedere con i primi due a parte l'attrice protagonista, Sophie Marceau.

Ai miei alunni adolescenti sono piaciuti il primo e, soprattutto, il secondo film. Non hanno molto apprezzato invece il terzo film.

Ad essere sinceri, "Il tempo delle mele 3" non è, usando un eufemismo, un capolavoro.

Contiene però, a mio avviso, un'interessante sequenza, la penultima del film, in cui la protagonista, Valentine, sostenendo l'esame finale di abilitazione all'insegnamento, presenta una relazione in cui, analizzando "Il Misantropo" di Moliere, utilizza le sue vicende private per imbastire una lezione sull'opera.

"Per me" dice Valentine, "nelle incoerenze dell’amore trattate da Moliere, amare ciò che non conviene è la molla più sovente utilizzata, perché contiene un impatto drammatico eterno e pone la dolorosa questione della difficoltà di amare.

Amare ciò che non conviene, sorgente di errori e di conflitti, spinge i personaggi alla scelta cruciale dell’amore: la scelta tra l’amore tout court e l’amore di sé. [...]

Moliere solleva ante litteram uno dei problemi fondamentali delle coppie moderne: l’indipendenza della donna.

Ciascuno dei due eroi muove ed anima il suo universo, li confrontano ad armi uguali e questi universi sono irriducibili l’un l’altro.

E questa passione irragionevole che Alceste (il protagonista de "Il Misantropo, n.d.r.) combatte, questa passione è a volte profondamente toccante.

Quando per esempio Alceste, il puro, l’intransigente, il nemico fanatico della menzogna, supplica Celimene (la donna di cui Alceste è innamorato, n.d.r.) di mentirgli.

Atto quarto, scena terza: “Sforzatevi di apparire fedele ed io mi sforzerò di credervi tale”.

Nel quinto atto egli spera ancora di cambiarla ma è una chimera, non si può cambiare un essere e non si ha il diritto di esigere questo cambiamento.

Attraverso delle scuse imbarazzate, nel linguaggio prezioso del XVII secolo, ciò che Celimene vuol far comprendere ad Alceste, ciò che lei vuole dirgli è: “Se mi ami, accetta me come sono perché io non cambierò. Tu accetta me come sono ed io accetterò te come sei”.

Alceste è intransigente, egoista, possessivo. Celimene è leggera, irresponsabile, infedele. Ma se accettassero i loro difetti, se riuscissero a sorridere delle loro differenze sarebbe la vittoria dell’amore sull’amor proprio. Solo che questi sacrifici non sono degni che di un grande amore.

E come si riconosce un grande amore?

Il giorno in cui ci si accorge che l’unico essere al mondo che può consolarvi è quello che vi ha fatto del male, allora si sa che si è una coppia.

“Il Misantropo”: commedia o tragedia?

Monsieur (il fratello del re Luigi XIV, n.d.r.) diceva uscendo da una rappresentazione: “Quando si smette di ridere, bisognerebbe piangere!” ed è vero: assistere al fallimento di un grande amore è terribilmente triste, immaginare i due eroi ricacciati nel deserto della loro solitudine è una desolazione.

Io credo sia questo il messaggio di Moliere giunto a noi attraverso il tempo.

E’ a voi, se permettete, che questo discorso è diretto: c’è qualcuno tra voi che ama abbastanza l’essere che dice di amare da preferire la sua felicità alla propria? Da lasciarlo vivere al suo ritmo, piangere delle sue delusioni, ridere delle sue gioie?

E terminerei con queste parole di Alfred De Musset:

“Tutti gli uomini sono bugiardi, incostanti, falsi, chiacchieroni, ipocriti, orgogliosi e vili, vigliacchi e sensuali. Tutte le donne sono perfide, vanitose, artificiose, curiose, depravate. Ma se c’è al mondo una cosa santa e sublime è l’unione di questi due esseri così imperfetti e vuoti.”

“Non Si Scherza Con L’Amore”, scena seconda, atto quinto."

https://www.youtube.com/watch?v=8Lk5gIiN07M

(1:15:00 e seguenti)



martedì 10 novembre 2015

"Troppo intelligente per la scuola"

Utilizzai questa espressione una ventina d'anni fa quando, per la prima volta, mi trovai alle prese con uno studente che non poteva che essere definito così: troppo intelligente per la scuola. Si annoiava profondamente e ogni giorno era sempre più difficile riuscire a tenere viva la sua attenzione. Arrivava alle conclusioni sempre prima degli altri, saltando passaggi che certi esercizi comunque richiedevano e che invece a lui non interessavano e a cui non aveva alcuna intenzione di prestare attenzione. Nel corso degli anni mi sono altre volte trovata a confrontarmi con studenti così, studenti a cui un vecchio modo di fare scuola tarpava le ali su cui la loro intelligenza volava. Del resto, quanti genitori si sono spesso sentiti dire dai docenti che il figlio "è capace ma non si applica"? L'istituzione scolastica, a partire dalla rivoluzione industriale, è da sempre stata pensata come luogo di trasmissione del sapere funzionale ad un sistema di conoscenze proprio della classe dominante. In una tale ottica, non c'è spazio per la creatività individuale e lo studente riconosciuto come migliore sarà necessariamente colui che meglio si adatterà a un sistema di conoscenze prestabilito. Altro che sviluppo delle capacità critiche: l'unico senso critico riconosciuto sarà quello già incondizionatamente accettato. Può succedere così che lo studente troppo intelligente che rifiuta di adattarsi a un sistema di pensiero, si ritrovi bocciato a scuola. Ma questo non significa che sarà bocciato nella vita. In fondo, non è un pezzo di carta a certificare quello che ciascuno di noi realmente sa fare o sa essere.

Le risposte della poesia


Alla mia nazione (XV)


Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.


[Pier Paolo Pasolini: “La religione del mio tempo”, “Nuovi epigrammi” (1958-59)]