domenica 14 febbraio 2016

Ciò che non si poteva dire

A Taranto, come recita la mia carta d'identità, ci sono nata.
Vi ho vissuto poco, per fortuna, portata via già a due mesi in Liguria e poi tornata, durante l'adolescenza, in Puglia, sì, ma in quella Brindisi che attualmente vive il disagio di una città i cui amministratori comunali si sono dimessi in massa in seguito all'arresto del primo cittadino.
A Taranto, da bambina, tornavo d'estate e, da un po' di anni, a volte, solo d'inverno, un paio di giorni, in occasione delle vacanze natalizie o, come accaduto recentemente, delle vacanze di Carnevale.
Non ho mai amato Taranto. Mai. Ho sempre respirato a fatica la sua aria infetta, pesante, che lasciava, lo ricordo bene, un tappeto di polvere nera sul balcone della casa di mia nonna, dove sono nata e dove trascorrevo, a volte, le mie vacanze estive.
Erano gli anni '60 - '70.
Nel frattempo l'aria diventava sempre più irrespirabile. Un numero sempre maggiore di residenti (anche tra i miei parenti) si ammalava. Moriva.
Ma Taranto accettava. L'Italsider (come molti, fino a qualche tempo fa continuavano a chiamare l'attuale Ilva) dava lavoro ai tarantini della città e della provincia. Di fronte al lavoro si chiudeva un occhio. Anche due. Si ricorreva all'amico sindacalista, al parroco, a chi poteva garantire un'assunzione. Il sistema clientelare si autoalimentava creando l'illusione del benessere.
Certo, molti degli attuali lavoratori Ilva sono anche capaci e sono stati assunti per merito. Ma anche no.
Poi è accaduto qualcosa. E ho ammirato, spudoratamente, Patrizia Todisco, il magistrato che, finalmente, dopo cinquant'anni, ha sollevato il caso Ilva. Perché, da quel momento, si è cominciato a parlare di ciò che, almeno a Taranto, tutti sapevano ma nessuno aveva voglia di raccontare e raccontarsi.
Perché certe cose non si possono (e/o non si vogliono) dire.

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