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lunedì 1 febbraio 2021

Morire di parto

Quando nel 1977 questa canzone cominciò a circolare sulle radio libere che trasmettevano canzoni melodiche, non potei far a meno di esserne colpita. 

Nel 1977  morire di parto in Italia non era un'eventualità così remota, sebbene accadesse sempre meno frequentemente rispetto ai primissimi anni del decennio precedente (1960/1961), quando l'ospedalizzazione del parto non era ancora così diffusa.

Fin da bambina io avevo imparato che di parto si poteva morire e che potevano morire sia la madre sia il neonato. Entrambi. O uno dei due. 

Nella mia famiglia la cugina di mia madre, a 22 anni, era morta di parto e con lei era morto il suo bambino. Il sorriso di quella giovane donna, di cui mi restava il ricordo nella foto che la madre di lei teneva in sala e che era la stessa che c'era sulla sua tomba, mi turbava ogni volta che mi capitava di guardarlo.

Ugualmente mi turbava e mi imbarazzava, perché mi sembrava di essere una privilegiata rispetto a lei, la vicenda di una bambina che abitava nel mio condominio e che era mia compagna di giochi: la sua mamma era morta nel darla alla luce e lei viveva con la nonna materna.

Sono le storie che viviamo che spesso, anche se non ce ne accorgiamo. ci segnano per sempre, indirizzando e guidando poi le nostre emozioni, le nostre passioni, le nostre attenzioni e le nostre curiosità, i nostri gusti, le nostre scelte di vita.


"Finalmente s’apre quella porta accanto
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Lo so, non me lo dica, ho già capito
Il bimbo è nato, ma il sogno è finito
Odio mio figlio
Dio, che mi succede
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo
In cambio non lo accetto, devo odiarlo"



https://www.youtube.com/watch?v=UKugS2PGr3o&feature=share&fbclid=IwAR021YOUDqnM848s8bhVR3rZaP_De5lFRLvBisa2ATPBISX8PPdDH12TAsk


Filippo Schisano
Odio mio figlio
Sono lì in corsia ad aspettare
Che diventi padre, sai che gioia
A te che soffri per amore mio
Ma non faccio altro che pensare a te
Nella gioia e nel dolore sarà sempre mio
Ho comprato delle rose stamattina Che bellezza se verrà un bambino
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Non potrò scordarmi mai di Dio Finalmente s’apre quella porta accanto
Dio, che mi succede
Lo so, non me lo dica, ho già capito Il bimbo è nato, ma il sogno è finito Odio mio figlio
In cambio non lo accetto, devo odiarlo
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
Ho rubato un giglio alla Madonna
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto e devo odiarlo Anche se oramai non vale niente
Poi guardo quegli occhietti da bambino
Ma non ho il coraggio di donarlo a te Non mi ringrazieresti coi tuoi baci Odo un vagito gemere dal nulla Mi getto a capofitto nella culla Che chiedono perdono al suo papà Odio mio figlio
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Dio che mi succede Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto, devo odiarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
L’ho solo perdonato, ma mi bagno il viso
Quel bimbo fuori guarda e mi fa già un sorriso

lunedì 29 ottobre 2018

Obiettori di coscienza e piccole storie ignobili

A chi si ostina a tuonare contro la 194, sarebbe opportuno ricordare che l'aborto è sempre esistito. La 194 del 1978 è stata solo (e finalmente, nonostante le sue imperfezioni) la legge che lo ha regolamentato, nel tentativo di evitare che le donne delle classi più povere o le minorenni morissero di setticemia sotto i ferri da calza delle mammane. Noi che c'eravamo ce lo ricordiamo e vorremmo che tutti ricordassero che tanti obiettori di coscienza erano in precedenza proprio coloro che, clandestinamente e compensati con ricche parcelle, praticavano gli aborti clandestini.
Quegli stessi aborti clandestini evocati da Francesco Guccini nel 1976 con "Piccola storia ignobile".



"E così ti sei trovata come a un tavolo di marmo desiderando quasi di morire,
presa come un animale macellato stavi urlando, ma quasi l'urlo non sapeva uscire
e così ti sei trovata fra paure e fra rimorsi davvero sola fra le mani altrui,
che pensavi nel sentire nella carne tua quei morsi
di tuo padre, di tua madre e anche di lui,
di tuo padre, di tua madre e anche di lui,
di tuo padre, di tua madre e anche di lui.

Ma che piccola storia ignobile sei venuta a raccontarmi, non vedo proprio cosa posso fare.
Dirti qualche frase usata per provare a consolarti o dirti: "è fatta ormai, non ci pensare".
E' una cosa che non serve a una canzone di successo e non vale due colonne su un giornale,
se tu te la sei voluta cosa vuoi mai farci adesso
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare
e i politici han ben altro a cui pensare..."

giovedì 19 luglio 2018

Emozioni in musica

Ha una melodia accattivante, che evoca le emozioni tipicamente adolescenziali di amori estivi, intensi e fugaci, destinati a spegnersi al primo colpo di vento. Ascoltarla significa tornare indietro di quarant'anni, quando i sentimenti travolgenti sembravano dominare su tutto e tutti, anche quando erano insignificanti. E non importa se si hanno quasi sessant'anni. Si torna giovanissimi, travolti da parole e musica che sembrano quelle dell'adolescenza lontana eppure mai così vicina.








Che super taglio di capelli che hai
Potresti vincere tutto
Dobbiamo fare adesso subito qua
Una foto che spacca
E le favole e le corse
E le storie con gli effetti e le bugie
L’hai dette prima a me
Lo sai siamo sospesi in un vecchio spot dove allo specchio tu canti con il phon
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se, cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
Da sola in the night
(In the night)
Che super pelle, che profumo che hai
Mi mandi fuori di testa
Le tue magliette bianche dentro quei jeans
Sono una cosa perfetta
E le favole e le corse
E le storie con gli effetti e le bugie
L’hai dette prima a me
Lo sai che non mi passa
Dal primo bacio a scuola ad occhi chiusi
Come lo vorrei ora
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
Da sola in the night
(In the night)
Da sola in the night
(In the night)
Certo che lo sai, prendi tutto e te ne vai
Per vedere se è vero
Che poi ti vengo a cercare
E ritorni solo se cambia tutto tranne te
Alla tua festa non c’ero
Ma ti hanno vista ballare
(In the night
Da sola
In the night
Da sola in the night
In the night)
Compositori: Alessandro Merli / Davide Petrella / Fabio Clemente / Tommaso Paradiso
Testo di Da sola / In the night © Universal Music Publishing Group

martedì 9 maggio 2017

Anniversari

Ci sono giorni tutti uguali.
Ci sono giorni che segnano la storia di un Paese e restano per sempre nella memoria collettiva.
Non fu un giorno come tutti gli altri, quel 9 maggio del 1978.
Fu il giorno dell'epilogo della vicenda iniziata 55 giorni prima, il 16 marzo, con l'uccisione degli uomini della scorta e il rapimento, rivendicati dalle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Il cui corpo venne ritrovato in Via Caetani, a Roma, proprio il 9 maggio del 1978.

Nella mattina di quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, a Cinisi, in provincia di Palermo, venne ritrovato il corpo (dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) di Giuseppe Impastato, detto Peppino, la cui vicenda è stata rievocata nel film "I cento passi", di Marco Tullio Giordana (2000).
"Scena 96 - Radio Aut [interno giorno]

Salvo: "[...] Peppino non c'è più, Peppino è morto, si è suicidato. [...] Questo leggerete sui giornali, questo vedrete alla televisione... Anzi non vedrete proprio niente... [...] perché questa mattina giornali e televisione parleranno di un fatto molto più importante... del ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle Brigate rosse. E questa è una notizia che fa impallidire tutto il resto, per cui: chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia! Chi se ne fotte di questo Peppino Impastato! Adesso spegnetela questa radio, giratevi dall'altra parte. Tanto si sa come va a finire, si sa che niente può cambiare.[...] E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo [...]" (Marco Tullio Giordana, Claudio Fava, Monica Zapelli: "I cento passi", Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2001, pgg. 145, 146).




venerdì 10 marzo 2017

Lezioni di vita

A volte ho la sensazione di vedere, solo io, ciò che gli altri non vedono: bambini sempre più capricciosi, irritanti ed ineducati; adolescenti confusi, deboli, arroganti, sballati; adulti irresponsabili, irriverenti, ignoranti, boriosi. Un paese allo sbando. Una scuola allo sbando. Una società sempre più disorientata. E tante persone sole. Affannate. Di corsa. Tutte in agitazione ad inseguire il nulla.
Mi chiedo: ma tutto ciò lo vedo solo io? O gli altri lo vedono e fanno finta di nulla? O gli altri non lo vedono perchè non vogliono vederlo?
"Non vediamo quello che non vogliamo vedere" mi disse molti anni fa la madre di un alunno, completamente sordo dalla nascita.
Quella madre, disperata, in un drammatico colloquio, mi rivelò che solo a due anni dalla nascita del figlio si rese conto, insieme al marito, della disabilità del bambino. Eppure erano entrambi colti, appartenenti a famiglie di fascia sociale elevata, benestanti. Come era stato possibile che non si fossero resi conto che il loro bambino non udiva nulla, non si voltava verso la fonte da cui provenivano i suoni?

"Il fatto è, professoressa, che noi non accettavamo che potesse essere davvero così. E lo abbiamo negato, soprattutto a noi stessi, finché è stato possibile farlo. Non vediamo mai quello che non vogliamo vedere. E' così, per tutti gli eventi, piccoli o grandi che siano, della vita."

sabato 24 settembre 2016

Per giorni e giorni...






"Per giorni e giorni senza che nulla accadesse.
Il mare vuoto, vuota agitazione
di memorie e di membra senza attesa.
E un giorno tu compari sull'orizzonte.
Due punti che si guardano da lontano.
Quanto spiarsi, come cose immortali!"

Vittorio Bodini, "Appunti di poesia", 1943 -1961
Pubblicato in: Vittorio Bodini: "Poesie (1939 -1970)", Congedo Editore, Galatina, 1980 su licenza Arnoldo Mondadori Editore, pgg. 5 -6.


domenica 22 maggio 2016

Lacrime nerazzurre

Vivessi cent'anni, so già che sempre ricorderò la data del 22 Maggio. Il destino, il fato o chi per lui, ha deciso che fosse per me una data significativa. Mi ha riservato dolori e gioie il 22 Maggio. 
La gioia, inenarrabile, avvolgente, totale è stata quella che la pazza Inter mi ha regalato, in diretta da Madrid, la sera del 22 Maggio 2010. 
Due giorni dopo, il 24 Maggio, su "La panchina in cima al monte" pubblicai "Lacrime nerazzurre".

"Le lacrime del Capitano, quelle del Chucu, dello Special One, del Principe, di coloro che sugli spalti piangevano di gioia per un'emozione attesa per decenni, un sogno che sembrava dover rimanere tale ed invece diventava realtà in una splendida serata di maggio.
Le mie lacrime di gioia per questa squadra che ho imparato ad amare in età adulta, seguendo il fratello che, lui sì, l'aveva scelta fin da bambino. A me l'Inter era piaciuta perché soffriva, perché ci provava e non vinceva, perché inseguiva un sogno. Mi piaceva pensare che quel sogno si sarebbe realizzato e che la sofferenza, tanta, si sarebbe trasformata in una felicità intensa, indescrivibile, fortissima.
Una felicità maturata dopo anni di sfottò, di delusioni e sconfitte cocenti, di lacrime di amarezza, il derby perso 6 a 0, il 5 maggio 2002, l'esclusione dalla Champions a favore del Milan senza aver mai perso, i "Non vincete mai!", i cori come "Interista chiacchierone bravo sotto l'ombrellone ... [... ] e come l'anno scorso e come l'anno prima [...]", "Interista diventi pazzo!" e quant'altro.
Eppure ci credevo davvero, lo sentivo nel profondo del cuore che sarebbe capitato. Perché ero convinta anch'io, con Jim Morrison, che "A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato".
Così, mentre continuo a piangere di gioia, penso che sia valsa la pena sopportare tanta sofferenza per provare, adesso, il dolce sapore del trionfo."

https://vimeo.com/11960846?ref=fb-share&1

domenica 10 aprile 2016

"Se una radio è libera..."

"Bastarono i nostri quindici anni.
Bastò un trasmettitore da 5 watt preso a centomila lire.
Bastò un vecchio giradischi Philips, un microfono da dieci carte e un mixerino con due fader.
Bastò l'estro di un amico diciassettenne che faceva l'Istituto tecnico.
Bastò una stanza di casa sua e un'antennazza sui suoi tetti.
E avemmo la nostra radio."
(Luciano Ligabue: "Fuori e dentro il borgo", Baldini & Castoldi, Milano, 1997, pg. 80)

"<<Ecco.>>
<<Ecco cosa?>>
<<Novantanove megahertz.>>
<<Cosa?>>
<<E' la frequenza, la nostra frequenza.>>
<<Vuoi dire, che...>>
<<Siamo in onda.>>
[...]
Quella era Radiopirata, la più piccola radio dell'universo. Trasmetteva sui 99 megahertz. Non ce ne sarebbe stata mai più una uguale."
(Francesco Carofiglio: "Radiopirata", Marsilio Editori S.p.A., Venezia, 2011, pg. 150, pg. 152)



https://www.youtube.com/watch?v=xzlqv1ZFUyY



sabato 27 febbraio 2016

Beata ignoranza

"Mai più bocciati - Come essere promossi senza studiare mai" di Arnoldo Mosca e Guglielmo Pezzino, pubblicato da Sperling & Kupfer nel 1992 fu uno dei segnali che proprio allora, agli inizi degli anni '90, cominciava a diffondersi ed a essere propagandata l'idea che la cultura non servisse proprio a nulla e che fosse molto più vantaggioso per tutti bearsi della propria ignoranza.
Avanzarono, grazie anche alle frequenti presenze nelle TV, commerciali e non, presunti e/o sedicenti intellettuali che pontificavano su tutto, anche, e a volte soprattutto, su quello che non conoscevano.
Il mestiere dell'insegnante apparve ai più assolutamente ridicolo e ridicolizzati erano sia i docenti sia gli intellettuali, quelli veri. Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Umberto Eco, Nanni Moretti venivano continuamente scherniti in trasmissioni televisive di bassa lega.
Avanzava l'ignoranza, di cui i più si facevano vanto, e cominciarono a imperversare stili e modelli di vita volgari e meschini, che avevano un unico vero obiettivo: quello di una vita senza sacrifici, piena di soldi facili che permettevano anche, grazie a diplomifici e università per tutti, l'acquisizione di un pezzo di carta che, svuotato di ogni contenuto e di ogni merito, equivaleva sempre più a carta igienica.
E' andata così, per una ventina d'anni.
Come meravigliarsi, allora, se spesso, attualmente, ci si trova di fronte a incompetenti saccenti e presuntuosi che spesso non sono in grado di svolgere il lavoro che fanno?

Per giorni e giorni...

                                                              PER GIORNI E GIORNI
SENZA CHE NULLA ACCADESSE

Per giorni e giorni senza che nulla accadesse.
Il mare vuoto, vuota agitazione
di memorie e di membra senza attesa.
E un giorno tu compari sull'orizzonte.
Due punti che si guardano da lontano.
Quanto spiarsi, come cose immortali!

Vittorio Bodini, "Appunti di poesia", 1943 -1961
Pubblicato in: Vittorio Bodini: "Poesie (1939 -1970)", Congedo Editore, Galatina, 1980 su licenza Arnoldo Mondadori Editore, pgg. 5 -6.


venerdì 19 febbraio 2016

Chiedi di più

Ci prendevano in giro perché anziché (o oltre che) ascoltare Bob Marley o Patti Smith ascoltavamo Renato Zero, Umberto Tozzi e i Pooh.
Ci guardavano scambiarci "Tregua", "Gloria", "Boomerang" e i loro sguardi non nascondevano la loro riprovazione, come se stessimo commettendo chissà quale misfatto. Ma per le orecchie nobilissime dei ragazzi del nostro gruppo "quelli lì" erano improponibili.
Così noi ci incontravano in separata sede, a casa dell'una o dell'altra, e lì ascoltavamo canzoni d'amore che ci facevano sognare, meditare, a volte piangere perché troppo forte era la sofferenza d'amore che provavamo o pensavamo di provare.

CHIEDI DI PIÙ

Renato Zero > Tratto dall'Album "Tregua" (1980)


Se un amore muore, 
Una ragione ci sarà. 
Forse il coraggio sta morendo! 
Poche parole 
Una valigia, una bugia, 
Ma solo chi rimane 
Sa il buio cosa sia…! 
Allarga le tue braccia, 
A chi ti cercherà… 
A chi ti tenderà le braccia! 
A chi è pronto a sconfiggere 
La noia la dov’è. 
A chi di questo amore… 
Ha fame come me! 
Non voltarti indietro mai, 
Sarò felice se ce la farai! 
Se vedrai che dopo me, 
C’è ancora vita, 
Una speranza c’è! 
Malgrado tutto resteremo noi… 
Coi nostri dubbi dissipati mai! 
…Solo noi, ancora noi! 
No! 
A chi vorrà stupirti… 
No! 
A chi non sa accarezzarti… 
No! 
Non basterà una promessa… 
No! 
Se poi la fine è la stessa… 
Chiedi di più, 
Chiedi molto di più, ora…! 
Chiedi di più, 
Di un incontro qualunque 
Di un triste su e giù! 
Chissà che faccia avrà 
Chi mi sostituirà? 
Come saranno le sue mani! 
Basta che sappia darsi come ho fatto io! 
Che non sia solo un gioco, 
Solo un mestiere il suo! 
No! 
A chi gli basta sognarti… 
No! 
A chi vorrà violentarti… 
No! 
Se quel tuo istinto non sbaglia… 
No! 
Se l’anima tua si sveglia… 
Chiedi di più 
No! 
Perché non sei una puttana… 
No! 
Perché io ogni notte sto in pena… 
No! 
Forse non ero il migliore… 
No! 
Ma ti ho insegnato l’amore…

domenica 14 febbraio 2016

Ciò che non si poteva dire

A Taranto, come recita la mia carta d'identità, ci sono nata.
Vi ho vissuto poco, per fortuna, portata via già a due mesi in Liguria e poi tornata, durante l'adolescenza, in Puglia, sì, ma in quella Brindisi che attualmente vive il disagio di una città i cui amministratori comunali si sono dimessi in massa in seguito all'arresto del primo cittadino.
A Taranto, da bambina, tornavo d'estate e, da un po' di anni, a volte, solo d'inverno, un paio di giorni, in occasione delle vacanze natalizie o, come accaduto recentemente, delle vacanze di Carnevale.
Non ho mai amato Taranto. Mai. Ho sempre respirato a fatica la sua aria infetta, pesante, che lasciava, lo ricordo bene, un tappeto di polvere nera sul balcone della casa di mia nonna, dove sono nata e dove trascorrevo, a volte, le mie vacanze estive.
Erano gli anni '60 - '70.
Nel frattempo l'aria diventava sempre più irrespirabile. Un numero sempre maggiore di residenti (anche tra i miei parenti) si ammalava. Moriva.
Ma Taranto accettava. L'Italsider (come molti, fino a qualche tempo fa continuavano a chiamare l'attuale Ilva) dava lavoro ai tarantini della città e della provincia. Di fronte al lavoro si chiudeva un occhio. Anche due. Si ricorreva all'amico sindacalista, al parroco, a chi poteva garantire un'assunzione. Il sistema clientelare si autoalimentava creando l'illusione del benessere.
Certo, molti degli attuali lavoratori Ilva sono anche capaci e sono stati assunti per merito. Ma anche no.
Poi è accaduto qualcosa. E ho ammirato, spudoratamente, Patrizia Todisco, il magistrato che, finalmente, dopo cinquant'anni, ha sollevato il caso Ilva. Perché, da quel momento, si è cominciato a parlare di ciò che, almeno a Taranto, tutti sapevano ma nessuno aveva voglia di raccontare e raccontarsi.
Perché certe cose non si possono (e/o non si vogliono) dire.

giovedì 21 gennaio 2016

"Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)


Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

domenica 10 gennaio 2016

Vestita da donna

Ornella era la più brava della classe. I suoi compagni la stimavano, la rispettavano, la coccolavano non solo perché, con generosità, era sempre pronta ad aiutarli nello studio, spiegando loro ciò che non avevano capito durante le lezioni, ma anche perché, in quella classe composta da 25 studenti, era l'unica ragazza.
Una ragazza che frequentava, brillantemente, un Istituto Tecnico ad indirizzo "Elettronica e Telecomunicazioni". Rare le ragazze, in quel tipo di corso. Guardate con scetticismo, soprattutto dai docenti delle discipline tecniche e professionali, ingegneri di sesso maschile convinti della naturale inferiorità della donna.
Ornella, grazie alle sue capacità intellettive, era riuscita a convincere anche loro che, a volte, qualche eccezione può esistere.
Gli ottimi voti ottenuti se li era guadagnati studiando, senza ammiccamenti femminili o gambe e seni scoperti.
Il suo abbigliamento era rigorosamente unisex, nessuna concessione a fronzoli od altro.
Mantenne lo stesso stile per tutti i cinque anni di scuola.
Solo il giorno del colloquio orale degli esami di maturità, arrivò a scuola "vestita da donna".
Le disse proprio così il commissario interno, il professore di Sistemi, vedendola con il lungo abito estivo (una specie di tunica) che lei, quel giorno, aveva indossato.
"Cosa hai fatto, ti sei vestita da donna?"

Ornella arrossì, rispose con un sorriso garbato e, arrivato il suo turno, si sedette e mostrò alla commissione che, anche vestita da donna, aveva un cervello che funzionava. Come, anzi, meglio di quello dei tanti uomini che la circondavano.
(Già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder e successivamente sul blog "La panchina in cima al monte")

Mauro per sempre

Fino alla fine, continuarono a sperare nella sua guarigione. Ci credevano davvero, forse spinti anche dalla forza e dal coraggio di quella giovane madre. Una vera madre. Capace di piangere e disperarsi, ma non davanti a lui. Perché lui non doveva sapere quanto grave fosse la sua malattia. Lui doveva vivere come tutti i suoi compagni, libero di continuare a fare progetti per il futuro, come tutti i sedicenni fanno.

Sì, i suoi insegnanti credevano davvero che ce l'avrebbe fatta. E quando vennero informati che non sarebbe andata così, attoniti continuarono a mantenere quel segreto terribile. Mauro non doveva sapere. I suoi compagni non dovevano sapere.

Così, quel terribile dolore poté essere rivelato a tutti solo in quell'assolato giorno di giugno, il 20 giugno 2007, quando Mauro se ne andò. Ma non li lasciò soli. Era con tutti coloro che lo avevano amato e non lo avrebbero dimenticato.

Vivo nei loro cuori. Per sempre.


"Non muore chi rimane

vivo nel nostro cuore"


"Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura

che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,

da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,

da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,

non voglio che muoia la mia eredità di gioia,

non bussare al mio petto, sono assente.

Vivi nella mia assenza come in una casa.

E' una casa sì grande l'assenza

che entrerai in essa attraverso i muri

e appenderai i quadri nell'aria.

E' una casa sì trasparente l'assenza

che senza vita io ti vedrò vivere

e se soffri, amor mio, morirò nuovamente."

(Pablo Neruda: "Sonetto XCIV" da "Cento sonetti d'amore - Notte")

lunedì 4 gennaio 2016

"Se tutti gli sfigati, gli sfigati del mondo..."

"Profe," mi dice ad un tratto uno studente "io sono uno "sfigato!".
Sollevo lo sguardo dalle mie carte e lo guardo negli occhi. E' seduto al primo banco, il suo banco fin dal primo giorno di scuola. E' uno studente di prima, attento, volenteroso, partecipe. Almeno con noi docenti.
Non mi sembra però che abbia legato molto con i compagni.
Durante la ricreazione resta spesso in classe con l'insegnante, non esce dall'aula, come fa invece la maggior parte dei suoi compagni.
E' stato proprio durante l'intervallo che, mentre eravamo rimasti in aula da soli, mi ha detto così: "Profe, sono uno sfigato!"
Gli ho chiesto perché ritenesse di esserlo.
Ha cominciato a spiegarmi che sono i suoi compagni a definirlo così: lui continua a fare la vita di sempre, quella che conduceva alle scuole medie.
Studia, fa i compiti, esce con i suoi amici d'infanzia. Non fuma, non beve il sabato sera, non prende pasticche o cocaina, non va in discoteca.
"Capisce, profe? Sono proprio uno sfigato!".
L'insegnante di italiano che è in me vorrebbe dirgli di adoperare un registro linguistico più formale. Ma non è una situazione formale, questa.
E' il grido di aiuto di chi, mentre sta crescendo, si trova a non accontentarsi più di essere accettato dagli adulti. Ha bisogno dell'accettazione del gruppo dei pari. Di cui, tuttavia, non condivide i valori.
"Sai," gli dico "anch'io sono stata una "sfigata", anche se all'epoca non ci definivano così".
Gli dico che ne conosco e ne ho conosciuti tantissimi di sfigati come lui, che spesso preferiscono nascondersi o adeguarsi a modelli che non condividono.
Ma forse sarebbe meglio che tutti gli "sfigati" del mondo si unissero e si opponessero al conformismo di chi definisce gli altri "sfigati" per non ammettere la propria fragilità, la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza.

(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte" - piattaforma Splinder - il 14 novembre 2008)

domenica 3 gennaio 2016

La 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non

era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca

non avevo nemmeno la patente), era la macchina

della madre del mio amico più caro che, appena ne

 aveva la possibilità, ne usufruiva.

La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a

contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come

sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.

Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo 

giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport 

per assistere alle partite della locale squadra di

basket, effettuare testa-coda magistralmente 

calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non 

c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

venerdì 1 gennaio 2016

Diana

Diana morì di parto nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, una decina di giorni prima di Natale.
La ricordava bene, o meglio, ricordava il suo viso splendente fissato nella foto sulla lapide della sua tomba. 
Da bambina, insieme a sua madre, aveva visitato spesso quella tomba. Aveva appreso così, proprio da bambina, che nascere, a volte, significa anche morire, proprio come era accaduto alla creatura che Diana portava in grembo.
Era il 1962. Forse allora si moriva molto più spesso di parto.
Nel 2015, ancora, si moriva di parto, si moriva alla nascita. Forse non così spesso, come accadeva ai tempi di Diana.
Ma ancora accadeva.

domenica 27 dicembre 2015

Ragazza da parete

Forse anche lei era una ragazza da parete. 
Da sempre preferiva ascoltare, anche ciò che non veniva detto. 
Ecco perché le sembrava sempre di aver capito come sarebbero andate le cose: ascoltare le consentiva di prevedere ciò che sarebbe accaduto.
Non sempre ciò era un vantaggio, tutt'altro. Ma era così.








https://www.youtube.com/watch?v=EiXWCnKw-eE