Visualizzazione post con etichetta storie. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta storie. Mostra tutti i post

domenica 24 aprile 2022

Amori difficili

 

"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."

La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277; da questo romanzo è stato tratto il film di Robert Redford  "Gente comune" del 1980), si riferisce alle difficoltà relazionali tra una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.


E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.

L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto.

A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.

lunedì 1 febbraio 2021

Morire di parto

Quando nel 1977 questa canzone cominciò a circolare sulle radio libere che trasmettevano canzoni melodiche, non potei far a meno di esserne colpita. 

Nel 1977  morire di parto in Italia non era un'eventualità così remota, sebbene accadesse sempre meno frequentemente rispetto ai primissimi anni del decennio precedente (1960/1961), quando l'ospedalizzazione del parto non era ancora così diffusa.

Fin da bambina io avevo imparato che di parto si poteva morire e che potevano morire sia la madre sia il neonato. Entrambi. O uno dei due. 

Nella mia famiglia la cugina di mia madre, a 22 anni, era morta di parto e con lei era morto il suo bambino. Il sorriso di quella giovane donna, di cui mi restava il ricordo nella foto che la madre di lei teneva in sala e che era la stessa che c'era sulla sua tomba, mi turbava ogni volta che mi capitava di guardarlo.

Ugualmente mi turbava e mi imbarazzava, perché mi sembrava di essere una privilegiata rispetto a lei, la vicenda di una bambina che abitava nel mio condominio e che era mia compagna di giochi: la sua mamma era morta nel darla alla luce e lei viveva con la nonna materna.

Sono le storie che viviamo che spesso, anche se non ce ne accorgiamo. ci segnano per sempre, indirizzando e guidando poi le nostre emozioni, le nostre passioni, le nostre attenzioni e le nostre curiosità, i nostri gusti, le nostre scelte di vita.


"Finalmente s’apre quella porta accanto
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Lo so, non me lo dica, ho già capito
Il bimbo è nato, ma il sogno è finito
Odio mio figlio
Dio, che mi succede
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo
In cambio non lo accetto, devo odiarlo"



https://www.youtube.com/watch?v=UKugS2PGr3o&feature=share&fbclid=IwAR021YOUDqnM848s8bhVR3rZaP_De5lFRLvBisa2ATPBISX8PPdDH12TAsk


Filippo Schisano
Odio mio figlio
Sono lì in corsia ad aspettare
Che diventi padre, sai che gioia
A te che soffri per amore mio
Ma non faccio altro che pensare a te
Nella gioia e nel dolore sarà sempre mio
Ho comprato delle rose stamattina Che bellezza se verrà un bambino
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Non potrò scordarmi mai di Dio Finalmente s’apre quella porta accanto
Dio, che mi succede
Lo so, non me lo dica, ho già capito Il bimbo è nato, ma il sogno è finito Odio mio figlio
In cambio non lo accetto, devo odiarlo
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
Ho rubato un giglio alla Madonna
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto e devo odiarlo Anche se oramai non vale niente
Poi guardo quegli occhietti da bambino
Ma non ho il coraggio di donarlo a te Non mi ringrazieresti coi tuoi baci Odo un vagito gemere dal nulla Mi getto a capofitto nella culla Che chiedono perdono al suo papà Odio mio figlio
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Dio che mi succede Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto, devo odiarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
L’ho solo perdonato, ma mi bagno il viso
Quel bimbo fuori guarda e mi fa già un sorriso

domenica 25 ottobre 2020

"La social catena"

 "Il 6 agosto 2020 Tizio parte per le vacanze. Il 12 agosto contrae il Covid19 da un asintomatico, ignaro di esserne affetto. Tizio, di ritorno dalle vacanze il 14 agosto 2020, non effettua il tampone. E' asintomatico; il 20 agosto 2020 incontra Caio e Sempronio cui trasmette il virus. Caio e Sempronio restano asintomatici. Caio, il 26 agosto, partecipa a una festa di compleanno e trasmette il virus a tre persone. Sempronio, il 29 agosto, partecipa a un matrimonio e trasmette il virus a dieci persone. Una delle persone incontrate da Caio, il 3 settembre contagia tre persone, compresa sua nonna che ha 75 anni. Il 4 settembre comincia ad avere febbre e malesseri vari; non è grave. Sua nonna, invece, il 10 settembre, viene ricoverata in terapia intensiva. Nel frattempo ...".

La storia continua così. Per coloro che si fanno beffe del numero dei contagiati, comunicato quotidianamente, ritenendo che contare gli asintomatici non serva a nulla, suggerirei di riguardare il numero dei contagiati del 25 settembre e quello del 25 ottobre 2020. Al momento le strutture sanitarie reggono ma potrebbe succedere che, in breve tempo, non reggano più. E non mi si venga a dire che occorre salvare l'economia. La storia della diffusione delle epidemie insegna che l'economia non può non risentirne. E allora, quello che davvero occorre fare, è stringersi in una "social catena", per contrastare grazie alla solidarietà e al senso di comunità, questa prova che tutti noi, indistintamente, siamo chiamati ad affrontare.




"Così fatti pensieri                                145
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contro l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte                                150
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo                            155
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede."
(Giacomo Leopardi: "La ginestra, o il fiore del deserto", versi 145 - 157)



sabato 26 gennaio 2019

"Essere felici - Il cinema insegna"

“Io penso che la felicità è quando ti vai a prendere quello che c’è di grande nella vita, anche se devi superare tantissimi ostacoli e difficoltà. Quindi la felicità è una cosa che se proprio la vuoi te la devi andare a prendere. A questa cosa ci penso molto spesso, perché io delle volte mi sento solo e disperato, ma altre volte sento proprio di essere felice.
E non ho detto allegro, contento, sereno, ho proprio detto felice!
Di solito però gli altri, le persone normali, vogliono che stai in difesa, che fai catenaccio, è come se non ci credono che ci sono le cose grandi da andarsi a prendere in attacco. In difesa uno soffre meno, ma non so se può davvero essere felice.
[…] Una cosa molto importante per essere felici sono le persone speciali, una persona speciale è quella che ti fa capire che in attacco ci sono le cose grandi e che stare in difesa è un peccato. Oppure sei tu che gli fai capire che in attacco ci sono le cose grandi e allora sei molto felice di farglielo capire.

Io ci provo ad essere felice, costi quello che costi. Certo, mica si può essere felici di tutto, però forse basta esserlo di qualcosa, che poi quel qualcosa illumina tutto il resto… e siamo salvi.” (Tratto dalla sceneggiatura del film “Banana” di  Andrea Jublin. Italia, 2015)


mercoledì 10 ottobre 2018

Per sempre

Giura che lo ama. 

Che resteranno insieme per sempre. 

Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.

Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 60.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Rielaborazione di un vecchio post già pubblicato sulla piattaforma Splinder)

sabato 7 luglio 2018

"Chiamami col tuo nome"

"<<Non parleremo mai più, io e te>> dissi, mentre scendevamo l'interminabile pendio, il vento tra i capelli.
<<Non dire così.>>
<<Lo so già. Ci limiteremo a chiacchierare. Chiacchierare, chiacchierare. Stop. E sai qual è la cosa più buffa? Che me lo farò bastare.>>
<<Ti è appena uscita una rima>> rimarcò.
Adoravo il modo in cui perdeva la pazienza con me." 
(André Aciman: "Chiamami col tuo nome", Guanda, Milano, 2008, Tredicesima edizione febbraio 2018, pagina 96)

venerdì 6 luglio 2018

Il piacere della collaborazione: un ritorno alle origini

"PENSIERI, COMMENTI E IDEE IN LIBERTA'
Le sale insegnanti non sono tutte uguali: in alcune, come quella in cui noi della redazione ci siamo incontrati, si parla di tutto, ci si confronta e nascono ottime collaborazioni che rendono piacevole lo stare a scuola. In questo blog vogliamo ricreare virtualmente il clima di quella sala docenti: uno spazio per confrontarsi e far sentire la propria voce, una sorta di redazione o di radio libera simile a quelle degli anni Settanta, quelle libere veramente." 
Con queste parole, nel settembre 2007, era stato inaugurato il blog "Sala Docenti". L'idea era quella di mettere a confronto opinioni e pensieri diversi, che partissero, ma non necessariamente, dal mondo della scuola, e si estendessero poi alle diverse situazioni della vita quotidiana. Il blog avrebbe dovuto prevedere la collaborazione di più persone, insegnanti, ma anche genitori e studenti. Di fatto, poi, solo Cristina, la collega con cui ho condiviso momenti importanti della mia vita professionale, e non solo, è sempre stata un'ottima e preziosa collaboratrice, arricchendo con le sue riflessioni le pagine di "Sala Docenti". 
La collaborazione è sempre preziosa e rende indubbiamente più ricca la riflessione, la discussione e il confronto.
Per questo, anche #Sala Docenti vuole riprovarci, con una sorta di ritorno alle origini. L'input a farlo, devo riconoscerlo e gliene sono grata, è partito da Diego, uno dei miei ex studenti.
Così, da oggi, questo blog diventerà una redazione cui collaboreranno voci diverse. Perché solo insieme si cresce davvero.

lunedì 2 luglio 2018

Diritto di cittadinanza

Caleb è nato in Italia. Frequenta la scuola italiana da quando aveva sei anni. Nella sua classe, nell'anno scolastico appena terminato, è stato uno dei migliori. Ma non è cittadino italiano. Lo sarà quando avrà compiuto il diciottesimo anno di età. Ecco, io questa cosa non l'ho capita e probabilmente non la capirò mai.

venerdì 29 giugno 2018

"Il Monti" e i buoni maestri

La mia insegnante di italiano del liceo mi chiamava così: "il Monti".
"Chiediamo al "Monti"" diceva, rivolgendosi ironicamente a me.
Sosteneva che fossi una voltagabbana, pronta a salire sempre sul carro del vincitore, proprio come l'illustre letterato che lei detestava.
Non ero e non sono una voltagabbana. E quel soprannome mi indignava molto.
Rivendicavo e rivendico il diritto di cambiare opinione e pretendo di non essere condizionata dal gruppo di appartenenza. Rivendicavo e rivendico il diritto di essere un "cane sciolto".
Fanno paura i cani sciolti. Liberi, senza un padrone, chi può controllarne le gesta dato che non sono addomesticati? Meglio chiamare subito l'accalappiacani.
O umiliarli, insultarli, degradarli.
Come faceva la mia insegnante maonista (e forse anche un po' stalinista).
Aveva uno sguardo imperscrutabile. Noi studenti, però, durante le interrogazioni, quando ci guardava avevamo l'impressione che pensasse: "Questo qui è proprio scemo!".
Non sono mai riuscita a capire che cosa realmente pensasse di me finchè un giorno, all'inizio del terzo liceo, restituendomi il compito su Manzoni in cui mi aveva dato "cinque e mezzo", mi chiese:
"Che cosa è successo? Ti ho trovato davvero poco ispirata! Non è il tuo solito tema, non è la tua scrittura".
Le risposi che Manzoni non mi piaceva per niente.
Quel voto, in effetti, era il voto più basso che lei avesse mai assegnato a un mio tema. Di solito prendevo tra il sei e il sette. Mai di più. Oltre il sette e mezzo o l'otto (appannaggio esclusivo della più brava della classe) lei non andava mai.
Quel giorno pensai che, in fondo, le piaceva come scrivevo.
La sorpresa piacevole arrivò solo agli esami di maturità. Mi guardò fiera mentre il presidente della commissione, un insegnante di italiano, si complimentò con me per aver svolto uno dei migliori temi di letteratura tra tutti gli studenti dell'istituto.
Era il 14 luglio del 1980.
Da allora non ho più visto la mia insegnante del liceo.
Mi ha "fatto tribolare", come sono soliti dire i miei attuali studenti, ma io le sono davvero grata. Mi ha insegnato tanto. L'ho apprezzata, stimata, adorata.
Ancora, nei primi anni di insegnamento, soprattutto quando mi erano state assegnate delle classi difficili, sognavo spesso di entrare in classe e scoprire di essere ancora al liceo e di dover essere interrogata da lei, dalla mia insegnante di italiano.
Che mi aveva insegnato ad essere forte, proprio con la sua ironia. Mi aveva insegnato a credere e a difendere le mie opinioni. A costo di essere ridicolizzata.

mercoledì 6 giugno 2018

Dimostrami di amarmi

Alessio (il nome è fittizio ma la vicenda è reale), 17 anni, durante uno di quei momenti di confessione che a scuola accadono tra studenti e docenti, rivela che non sa più quale espediente escogitare per catturare l'attenzione dei suoi genitori che, a suo dire, non lo considerano affatto.
"Per loro è come se non esistessi. Di me, a loro, non importa nulla. Mi lasciano libero di andare dappertutto senza chiedermi nulla. Affermano che lo fanno per rispettare la mia libertà. Secondo me lo fanno per rispettare la loro libertà. Non si preoccupano affatto di me. Io, per catturare la loro attenzione, ho fatto di tutto, sono rientrato a casa di notte sempre più tardi. Mai un rimprovero, mai. Niente. Per loro non esisto."
Riflettano quei genitori che, come quelli di Alessio, hanno dimenticato che il loro ruolo non è quello di essere amici e complici dei loro figli ma quello di educare, indicare un modello di vita, trasmettere sogni, passioni, definire regole e farle rispettare. 
L'adolescente, per crescere, ha bisogno  di sfidare regole e limiti per sentirsi vivo e per dare un senso a ciò che vive. Ma se i limiti e le regole non esistono più, i più giovani si sentiranno sempre più soli, sempre più vuoti, sempre meno amati.

martedì 22 maggio 2018

22 maggio: "Lacrime nerazzurre"

Il 22 Maggio il calendario festeggia Santa Rita da Cascia, la santa dei Casi impossibili.
Otto anni fa, per chi tifa Inter, qualcosa che alla vigilia poteva sembrare impossibile, accadde.
Accadde a Madrid, la sera del 22 Maggio 2010. 

Due giorni dopo, il 24 Maggio, sul blog "La panchina in cima al monte" pubblicai "Lacrime nerazzurre".

"Le lacrime del Capitano, quelle del Chucu, dello Special One, del Principe, di coloro che sugli spalti piangevano di gioia per un'emozione attesa per decenni, un sogno che sembrava dover rimanere tale ed invece diventava realtà in una splendida serata di maggio.
Le mie lacrime di gioia per questa squadra che ho imparato ad amare in età adulta, seguendo il fratello che, lui sì, l'aveva scelta fin da bambino. A me l'Inter era piaciuta perché soffriva, perché ci provava e non vinceva, perché inseguiva un sogno. Mi piaceva pensare che quel sogno si sarebbe realizzato e che la sofferenza, tanta, si sarebbe trasformata in una felicità intensa, indescrivibile, fortissima.
Una felicità maturata dopo anni di sfottò, di delusioni e sconfitte cocenti, di lacrime di amarezza, il derby perso 6 a 0, il 5 maggio 2002, l'esclusione dalla Champions a favore del Milan senza aver mai perso, i  "Non vincete mai!", i cori come "Interista chiacchierone bravo sotto l'ombrellone ... [... ] e come l'anno scorso e come l'anno prima [...]", "Interista diventi pazzo!" e quant'altro.
Eppure ci credevo davvero, lo sentivo nel profondo del cuore che sarebbe capitato. Perché ero convinta anch'io, con Jim Morrison, che "A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato".
Così, mentre continuo a piangere di gioia, penso che sia valsa la pena sopportare tanta sofferenza per provare, adesso, il dolce sapore del trionfo."

https://vimeo.com/11960846?ref=fb-share&1

domenica 9 luglio 2017

Libertà e (in)dipendenza

Si dicono liberi ed indipendenti. E non riescono a restare un paio d'ore senza lo smartphone. Così, anche dove l'uso ne sarebbe sconsigliato e vietato, continuano a consultare freneticamente il loro cellulare, fosse solo per controllare l'ultima notifica ricevuta, in una sorta di frenesia incontrollabile che li rende simili a tossicodipendenti. E, in fondo, anche l'ossessione e la dipendenza da smartphone rientrano tra le forme di dipendenza da curare.
Così, un oggetto che avrebbe dovuto rendere le persone più libere, in questi casi le ha rese solo schiave e dipendenti. 
Ma guai a farlo notare a chi da  tale  dipendenza è affetto. Reclamerà la sua libertà e il suo diritto a usare il cellulare quando ne ha voglia. Chiuso nel suo ostinato individualismo e nella sua dipendenza da un oggetto.

mercoledì 5 luglio 2017

"Anche gli alberi bruciano"

"Questa estate ho imparato tante cose. La prima è che i nonni non si rapiscono, la seconda è che anche gli alberi bruciano, e non parlo della quercia, ma di alberi fatti di carne e sangue che legano generazioni e generazioni, alberi genealogici che crescono marci e divorano tutto, pure i loro stessi frutti. Ho imparato che la mela può cadere lontanissima dall'albero, così lontana da osservarlo bruciare mantenendo intatti i suoi semi, nonostante tutto.
Ho imparato che anche il dolore e la rabbia bruciano, proprio come l'amore. Ma lasciano dentro un marchio diverso."
(Lorenza Ghinelli: "Anche gli alberi bruciano", Rizzoli, Milano, 2017, pgg. 161 - 162)


venerdì 30 giugno 2017

Accoglienza e inclusione

Accogliere e includere significa creare le condizioni per cui coloro che vengono accolti possano vivere in condizioni dignitose: avere un lavoro, un alloggio dignitoso, godere dei naturali diritti civili, sentirsi parte di una comunità.
Questo significa accogliere e includere. Non lasciare vivere di espedienti, chiudendo in occhio o anche due di fronte a piccoli o grandi abusi e violazioni delle regole. 
Non permettere di vivere alla giornata, in condizioni igieniche inadeguate, in tuguri che non sono degni di essere chiamate abitazioni, sfruttando anche o arricchendosi ai danni di chi pensava di poter migliorare le proprie condizioni di vita.
Troppo comodo lavarsi la coscienza sostenendo di aver accolto. Se si accoglie qualcuno nella propria casa, non lo si lascia poi in un angolo vicino alla porta d'ingresso riservandogli magari le briciole del proprio cibo. Non è così che si fa.

venerdì 16 giugno 2017

Doveva essere una festa

"Quella per la finale doveva essere una festa, non immaginavamo di trovarci in mezzo alla bolgia. Io non avevo un'idea precisa di cosa avrei trovato in piazza ma non era quello che mi ero immaginato: era tutto disorganizzato, c'erano venditori abusivi, entrava chiunque senza controllo, c'erano bottiglie dappertutto... Siamo un Paese così, non abbiamo imparato nulla, bastava copiare quello che avevano fatto gli spagnoli con la proiezione dentro lo stadio. Invece qui è come se la sindaca avesse lasciato aperta la porta di casa sua senza rendersi conto che entravano trentamila persone. E quando il fattaccio ormai è accaduto dice "scusate, mi spiace, pensavo sarebbero venute solo due persone per un caffè". Ecco, "mi spiace" sono parole che non riusciamo a sentire". (cit. http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/06/16/news/_siamo_stanchi_dei_mi_spiace_dovevano_pensarci_prima_e_adesso_erika_e_morta_-168232813/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P2-S1.4-T2)
Le parole drammatiche di Fabio Martinoli, compagno di Erika Pioletti, la donna rimasta uccisa a seguito delle ferite riportate la sera del 3 giugno scorso, sono le stesse pronunciate da chi, quella sera, era in Piazza San Carlo, a Torino, e che mai avrebbe pensato di vivere in quella occasione una situazione tanto drammatica quanto assurda, soprattutto perché ai più è stato chiaro, prima ancora che scoppiasse il panico, che qualcosa, nell'organizzazione di quella serata, era mancato: i controlli di filtraggio per chi volesse accedere alla Piazza, riempita fino all'inverosimile; la vendita di alcolici che aveva reso ubriachi molti, prima ancora dell'inizio della partita; i cocci delle bottiglie di vetro che come un tappeto ricoprivano l'asfalto.
Di quella serata, nella mente di chi c'era, non resterà il ricordo di una partita che si sognava di vincere ma era stata malamente persa. Di quella serata resterà il ricordo di urla, spavento, vetri, sangue, corpi schiacciati, stretti quasi in una gabbia. Le scuse non bastano. Chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza di chi pensava di partecipare a una festa, dovrà renderne conto. Amministrare significa assumersi delle responsabilità, farsene carico. Ammettere di aver sbagliato. E pagarne le conseguenze.

lunedì 22 maggio 2017

Bullismo e violazione del diritto di esistere

<<Il bullismo è terribile, ed è uno. Prende di mira persone a cui appiccica etichette diverse, ma parte da un unico terribile principio: la negazione del diritto all'esistenza di tutto quello che non viene considerato "normale", secondo parametri molto spesso non decisi dai ragazzi stessi, ma ritenuti indiscutibili, diffusi nella società, avvalorati dai discorsi degli adulti, dalle loro parole, sostenuti dalle rappresentazioni e dalle stigmatizzazioni che anche dal punto di vista politico si fanno di tutto ciò che è ritenuto - per vari motivi - differente dalla norma.>> (Ivan Cotroneo - Febbraio 2016 - "Un bacio - dal racconto al film" in Ivan Cotroneo: "Un bacio", Bompiani, 2016, pgg. 97 - 98)

giovedì 18 maggio 2017

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder, successivamente sul blog "La panchina in cima al monte" e su questo blog il 10 Gennaio 2016)

martedì 9 maggio 2017

Anniversari

Ci sono giorni tutti uguali.
Ci sono giorni che segnano la storia di un Paese e restano per sempre nella memoria collettiva.
Non fu un giorno come tutti gli altri, quel 9 maggio del 1978.
Fu il giorno dell'epilogo della vicenda iniziata 55 giorni prima, il 16 marzo, con l'uccisione degli uomini della scorta e il rapimento, rivendicati dalle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Il cui corpo venne ritrovato in Via Caetani, a Roma, proprio il 9 maggio del 1978.

Nella mattina di quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, a Cinisi, in provincia di Palermo, venne ritrovato il corpo (dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) di Giuseppe Impastato, detto Peppino, la cui vicenda è stata rievocata nel film "I cento passi", di Marco Tullio Giordana (2000).
"Scena 96 - Radio Aut [interno giorno]

Salvo: "[...] Peppino non c'è più, Peppino è morto, si è suicidato. [...] Questo leggerete sui giornali, questo vedrete alla televisione... Anzi non vedrete proprio niente... [...] perché questa mattina giornali e televisione parleranno di un fatto molto più importante... del ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle Brigate rosse. E questa è una notizia che fa impallidire tutto il resto, per cui: chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia! Chi se ne fotte di questo Peppino Impastato! Adesso spegnetela questa radio, giratevi dall'altra parte. Tanto si sa come va a finire, si sa che niente può cambiare.[...] E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo [...]" (Marco Tullio Giordana, Claudio Fava, Monica Zapelli: "I cento passi", Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2001, pgg. 145, 146).




lunedì 1 maggio 2017

"Un uomo" da ricordare

ORIANA FALLACI: “UN UOMO”, Rizzoli, Milano, 1979
(Pgg. 11,12, 17, 456, 457)

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! […] Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. […] Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. […] Mi toglieva il respiro […] la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo? […]

Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. […] Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.

*  *  *

Fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.

*  *  *


E così, mentre accadevano altre cose leggiadre, […] mentre Papandreu adottava il tuo cadavere come si adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un cencio in comizi mentre i tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in cambio d’una bella poltroncina in Parlamento; […] mentre anch’io venivo minacciata con lettere e telefonate, prova-a-scrivere-certe-cose-e-vedrai; stampa-il-tuo-libro-e-vedrai; mentre il popolo accettava questo, di nuovo, subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di nuovo, piegato di nuovo all’obbedienza o alla convenienza o all’impotenza; mentre nessuno osava dire assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete ammazzato tutti insieme, lerci assassini […], il Potere vinse ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell’attimo in cui tirasti il respiro profondo che ti succhiava dall’altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono puntualmente gettati coloro che vogliono cambiare il mondo, abbattere la Montagna, dare voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere sarebbe pura follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, […] lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo di ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.

domenica 30 aprile 2017

Professione insegnante

Che tristezza imbattersi in un docente che non crede nel lavoro che svolge!
Che piacere, invece, incontrare insegnanti che amano il loro lavoro. Ci sono, questi insegnanti, e io ne conosco molti. Sono quelli che non hanno bisogno di mostrarsi necessariamente, sono quelli che credono nel lavoro che fanno e nell'alto compito educativo assegnato loro dalla società e dalle Istituzioni; sono quelli che non rivendicano quotidianamente un compenso economico per quanto fanno, nonostante tutto il loro tempo, anche quello non retribuito, dedicato all'attività che svolgono. Ci sono, questi insegnanti, e non c'è nulla di più importante di aver l'opportunità di incontrarne almeno uno durante il proprio percorso scolastico (come è capitato a tanti).