lunedì 1 maggio 2017

"Un uomo" da ricordare

ORIANA FALLACI: “UN UOMO”, Rizzoli, Milano, 1979
(Pgg. 11,12, 17, 456, 457)

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! […] Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. […] Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. […] Mi toglieva il respiro […] la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo? […]

Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. […] Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.

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Fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.

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E così, mentre accadevano altre cose leggiadre, […] mentre Papandreu adottava il tuo cadavere come si adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un cencio in comizi mentre i tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in cambio d’una bella poltroncina in Parlamento; […] mentre anch’io venivo minacciata con lettere e telefonate, prova-a-scrivere-certe-cose-e-vedrai; stampa-il-tuo-libro-e-vedrai; mentre il popolo accettava questo, di nuovo, subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di nuovo, piegato di nuovo all’obbedienza o alla convenienza o all’impotenza; mentre nessuno osava dire assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete ammazzato tutti insieme, lerci assassini […], il Potere vinse ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell’attimo in cui tirasti il respiro profondo che ti succhiava dall’altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono puntualmente gettati coloro che vogliono cambiare il mondo, abbattere la Montagna, dare voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere sarebbe pura follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, […] lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo di ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.

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