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sabato 28 dicembre 2019

Il pianto di Rachele e la strage degli innocenti: le responsabilità degli adulti

Muoiono. Cadono sulle strade, impregnate del loro sangue, spesso nei fine settimana, all'alba di una domenica mattina, al termine di una notte da sballo, fatta non più solo di luci stroboscopiche e musica ad altissimo volume ma spesso di pasticche a basso costo e di facile consumo e fiumi di alcol, e corse in automobile e rincorse alla ricerca di un senso di questa vita, di questa storia "anche se questa storia un senso non ce l'ha" come canta Vasco.
Spesso hanno tra i 15 e i 25 anni. Giovani, giovanissimi, che a volte non hanno nemmeno fatto in tempo a diventare anagraficamente adulti.
E noi, adulti attoniti, versiamo lacrime e imprechiamo contro un destino crudele e una società violenta, sbagliata, ingiusta.
Così, spesso, dimentichiamo, noi adulti, che la società è l'insieme di noi tutti.
Noi tutti che abbiamo accettato di rendere facile ciò che un tempo era proibito (anche se lo si faceva ugualmente), che abbiamo disimparato a dire "No", nell'illusione di rendere la vita più facile, senza complicazioni, senza traumi, senza difficoltà.
E invece il bello della vita sta proprio nello sfidarla, nel superare gli ostacoli, nell'affrontare le difficoltà e vincerle. 
Sembra che l'abbiamo dimenticato, noi adulti. Così, ai più giovani, non resta che cercare la sfida: nell'auto lanciata a gran velocità, nella nebbia di un cervello impasticcato, nella giostra di incontri sessuali consumati come un drink. Incapaci di emozioni, perché le emozioni vanno apprese e vanno insegnate, anche se fanno paura, anche se fanno male, anche se rendono fragili ed insicuri, come fragile ed insicura è l'umanità tutta.
Riappropriamoci delle emozioni. Riappropriamoci del pianto, non quello della sofferenza e del dolore di Rachele che piange per le vittime di una cultura falsa e illusoria, ma del pianto di gioia, quello di Filumena Marturano che scopre per la prima volta la forza e la bellezza dell'amore.

venerdì 6 luglio 2018

La letteratura insegna: Pier Paolo Pasolini


  Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

(Pier Paolo Pasolini: “Alla mia nazione” da "La religione del mio tempo", 1961)

venerdì 29 giugno 2018

Compagno di scuola


Per molti della mia generazione è stata una delle canzoni di riferimento. C’era chi pensava con disprezzo al “Compagno di scuola” evocato nella canzone cui, tanti giuravano, mai avrebbero assomigliato. Sbagliavano, come spesso succede.
E molti di noi, attualmente, conoscono perfettamente quelli che davvero non sono diventati “Compagni di scuola” e quelli che lo sono diventati ma non lo riconoscono e disprezzano gli altri, identici a loro.




Antonello Venditti: “Compagno di scuola”

Da “Lilly” (1975)


Davanti alla scuola tanta gente
otto e venti, prima campana
"e spegni quella sigaretta"
e migliaia di gambe e di occhiali
di corsa sulle scale.
Le otto e mezza, tutti in piedi
il presidente, la croce e il professore
che ti legge sempre la stessa storia
nello stesso modo, sullo stesso libro, con le stesse parole

da quarant'anni di onesta professione.
Ma le domande non hanno mai avuto
una risposta chiara.
E la Divina Commedia, sempre più commedia
al punto che ancora oggi io non so
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito

un servo di partito.
Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene
perché, ditemi, chi non si è mai innamorato
di quella del primo banco,
la più carina, la più cretina,
cretino tu, che rideva sempre
proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole,
gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto
sotto il banco.
Mezzogiorno, tutto scompare,
"avanti! tutti al bar".
Dove Nietzsche e Marx si davano la mano
e parlavano insieme dell'ultima festa
e del vestito nuovo, buono, fatto apposta
e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te)
e le assemblee, i cineforum, i dibattiti
mai concessi allora
e le fughe vigliacche davanti al cancello
e le botte nel cortile e nel corridoio,
primi vagiti di un '68
ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare!
E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te...
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?”




martedì 9 maggio 2017

Anniversari

Ci sono giorni tutti uguali.
Ci sono giorni che segnano la storia di un Paese e restano per sempre nella memoria collettiva.
Non fu un giorno come tutti gli altri, quel 9 maggio del 1978.
Fu il giorno dell'epilogo della vicenda iniziata 55 giorni prima, il 16 marzo, con l'uccisione degli uomini della scorta e il rapimento, rivendicati dalle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Il cui corpo venne ritrovato in Via Caetani, a Roma, proprio il 9 maggio del 1978.

Nella mattina di quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, a Cinisi, in provincia di Palermo, venne ritrovato il corpo (dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) di Giuseppe Impastato, detto Peppino, la cui vicenda è stata rievocata nel film "I cento passi", di Marco Tullio Giordana (2000).
"Scena 96 - Radio Aut [interno giorno]

Salvo: "[...] Peppino non c'è più, Peppino è morto, si è suicidato. [...] Questo leggerete sui giornali, questo vedrete alla televisione... Anzi non vedrete proprio niente... [...] perché questa mattina giornali e televisione parleranno di un fatto molto più importante... del ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle Brigate rosse. E questa è una notizia che fa impallidire tutto il resto, per cui: chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia! Chi se ne fotte di questo Peppino Impastato! Adesso spegnetela questa radio, giratevi dall'altra parte. Tanto si sa come va a finire, si sa che niente può cambiare.[...] E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo [...]" (Marco Tullio Giordana, Claudio Fava, Monica Zapelli: "I cento passi", Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2001, pgg. 145, 146).




lunedì 1 maggio 2017

"Un uomo" da ricordare

ORIANA FALLACI: “UN UOMO”, Rizzoli, Milano, 1979
(Pgg. 11,12, 17, 456, 457)

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! […] Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. […] Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. […] Mi toglieva il respiro […] la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo? […]

Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. […] Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.

*  *  *

Fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.

*  *  *


E così, mentre accadevano altre cose leggiadre, […] mentre Papandreu adottava il tuo cadavere come si adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un cencio in comizi mentre i tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in cambio d’una bella poltroncina in Parlamento; […] mentre anch’io venivo minacciata con lettere e telefonate, prova-a-scrivere-certe-cose-e-vedrai; stampa-il-tuo-libro-e-vedrai; mentre il popolo accettava questo, di nuovo, subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di nuovo, piegato di nuovo all’obbedienza o alla convenienza o all’impotenza; mentre nessuno osava dire assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete ammazzato tutti insieme, lerci assassini […], il Potere vinse ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell’attimo in cui tirasti il respiro profondo che ti succhiava dall’altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono puntualmente gettati coloro che vogliono cambiare il mondo, abbattere la Montagna, dare voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere sarebbe pura follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, […] lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo di ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.

venerdì 15 gennaio 2016

"Libertà è partecipazione"

Indubbiamente è importante partecipare, manifestando magari anche in piazza per far valere ciò in cui si crede.
La vera rivoluzione, tuttavia, la si fa agendo quotidianamente secondo gli stessi principi per cui si è manifestato. 
E' la quotidianità individuale che legittima le scelte di ciascuno e dell'intero sistema di cui si fa parte.
Solo così si può affermare di aver davvero partecipato.
E di essere davvero liberi. Coerentemente liberi.

sabato 26 dicembre 2015

Compagno di scuola

Per molti della mia generazione "Compagno di scuola", tratta dall'album "Lilly" di Antonello Venditti e pubblicata nel 1975, è stata una delle canzoni di riferimento. C'era chi pensava con disprezzo al "compagno di scuola" evocato nella canzone, cui, tanti giuravano, mai avrebbero assomigliato. Sbagliavano, come spesso succede.
E molti di noi, attualmente, conoscono perfettamente quelli che davvero non sono diventati "compagni di scuola" e quelli che lo sono diventati ma non lo riconoscono e disprezzano gli altri, identici a loro.
 

 
Davanti alla scuola tanta gente 
otto e venti, prima campana 
"e spegni quella sigaretta" 
e migliaia di gambe e di occhiali 
di corsa sulle scale. 
Le otto e mezza, tutti in piedi 
il presidente, la croce e il professore 
che ti legge sempre la stessa storia 
nello stesso modo, sullo stesso libro, con le stesse parole
da quarant'anni di onesta professione. 
Ma le domande non hanno mai avuto 
una risposta chiara. 
la Divina Commedia, sempre più commedia 
al punto che ancora oggi io non so 
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito
un servo di partito. 


Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene 

perché, ditemi, chi non si è mai innamorato 

di quella del primo banco, 

la più carina, la più cretina, 

cretino tu, che rideva sempre 

proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole, 

gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto 

sotto il banco. 

Mezzogiorno, tutto scompare, 

"avanti! tutti al bar". 

Dove Nietzsche e Marx si davano la mano 

e parlavano insieme dell'ultima festa 

e del vestito nuovo, buono, fatto apposta 

e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te) 

e le assemblee, i cineforum, i dibattiti 

mai concessi allora 

e le fughe vigliacche davanti al cancello 

e le botte nel cortile e nel corridoio,
 
primi vagiti di un '68 

ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare! 

E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te... 

"Compagno di scuola, compagno di niente 

ti sei salvato dal fumo delle barricate? 

Compagno di scuola, compagno per niente 

ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” 

(Antonello Venditti: "Compagno di scuola" - 1975)

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti")

venerdì 25 dicembre 2015

Mobilitazione (seconda parte)

Ci si mobilitò molto durante quel mio primo anno di scuola superiore. Le occasioni non mancavano mai ma ciò che portò all'occupazione della scuola furono il rigido regolamento d'Istituto (che, tra l'altro, vietava di portare a scuola qualunque altro materiale che non fosse strettamente scolastico "Quindi, anche il "Corriere della Sera" o "La Stampa"" come sosteneva il leader moderato, così veniva definito a causa della sua appartenenza alla federazione giovanile del PCI) e le precarie condizioni dell'Aula Magna che non consentivano di contenere più di cinque classi dell'Istituto ed impedivano, di fatto, lo svolgimento dell'assemblea plenaria di tutti gli studenti dell'Istituto.
L'occupazione passò soprattutto grazie ai voti favorevoli di noi studenti di quarta ginnasio. Inutile dirlo: subivamo il fascino dei leader, "moderati" o dell'estrema sinistra che fossero.
Leader carismatici. Autoritari. Quasi stalinisti. Approvata l'occupazione, concessero appena un quarto d'ora per decidere se volessimo rimanere a scuola o se volessimo "democraticamente" uscire dall'Istituto "okkupato".
Per uscire, io, Laura e un'altra nostra compagna di classe scavalcammo la finestra del pianterreno (il primo giorno) e ci facemmo venire a prendere dal padre della nostra compagna, un poliziotto che naturalmente si presentò in divisa. "L'ha chiamata il preside?" chiesero i capi. "No, devo prendere mia figlia e le sue amiche." rispose lui. Peggio andò ad un mio compagno di classe che si era portato anche il sacco a pelo e che venne prelevato dal suo genitore che lo afferrò letteralmente per le orecchie.
Durante l'occupazione, chi era a scuola non poteva pensare di stare a bighellonare (almeno di giorno, di notte non so, visto che non ebbi l'occasione di rimanervi).
Tutti dovevano seguire almeno un seminario. C'erano quelli che trattavano di filosofia politica ed erano di fatto disertati e quelli che affrontavano lo studio e l'analisi dei decreti delegati, la nuova proposta di regolamento da dare al nostro Istituto e varie problematiche sociali come la condizione femminile e l'autodeterminazione delle donne. Seguii quest'ultimo e scoprii una realtà che fino a quel momento ignoravo: la piaga degli aborti clandestini.
In uno dei due pomeriggi i leader organizzarono un concerto: ho ancora il ricordo delle note e delle parole delle canzoni degli Inti Illimani e di "in fila per tre" di Bennato e "La locomotiva" di Guccini e "Pablo" di De Gregori.
Al terzo giorno l'occupazione finì. Armati di secchi e stracci ripulimmo tutto sotto gli occhi vigili di bidelli, docenti e preside.
Inutile dire che la promessa dell'assessore comunale competente di "costruire una scuola sicura ed adeguata" rimase tale e solo cinque anni dopo essermi diplomata venni a sapere che finalmente, era appena stata inaugurata la nuova sede dell'Istituto.
Di quegli anni conservo vivo questo ricordo e una consapevolezza: i nostri leader, di fatto, sostituivano i docenti quando organizzavano qualunque iniziativa che riguardasse strettamente l'attivismo degli studenti. Erano rigidi ed autoritari, proprio come i docenti che dicevano di contestare. Non so se qualche insegnante, magari più "democratico" indirizzasse le loro scelte.

Di sicuro, durante le assemblee degli studenti, i docenti non erano ammessi. Per nessuna ragione. Nemmeno i più "democratici".

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti" - Per motivi di privacy alcuni dati sono stati cambiati ma sostanzialmente la vicenda narrata è realmente accaduta)

Mobilitazione (prima parte)

Appena arrivata al liceo, cominciai a sentir parlare di "mobilitazione".
Era passato poco più di un lustro dal periodo delle grandi contestazioni studentesche, i decreti delegati erano entrati in vigore da circa due anni e tutti, anche coloro che li consideravano un "contentino" concesso dal potere costituito per placare la rivolta studentesca, cercavano di utilizzarli al meglio: erano comunque un'occasione di democrazia nella scuola, un'occasione di partecipazione e, dunque, parafrasando Gaber, di libertà.
Certo, le ore mensili di assemblee concesse erano ben poca cosa rispetto alle assemblee permanenti di qualche stagione prima, ma gli studenti non si perdevano d'animo.
Mi accadde così di assistere, nel dicembre del 1975, alla convocazione immediata di un'assemblea non autorizzata.
I leader del movimento studentesco della mia scuola bussarono alla porta, salutarono l'insegnante di lettere (al ginnasio di solito in aula c'è sempre l'insegnante di lettere, dato che svolge le sue 18 ore settimanali su una sola classe) e dissero: "Vorremmo avvisare gli studenti che tra mezz'ora è convocata un'assemblea non autorizzata degli studenti, assemblea che si svolgera nel cortile della scuola. Se volete partecipare, ed è un vostro diritto, lasciate l'aula e raggiungeteci in cortile." Salutarono e se ne andarono.
Noi ci guardammo perplessi e poi rivolgemmo uno sguardo interrogativo verso l'insegnante. Avevamo tutti tra i tredici e i quattordici anni. Qualcuno di noi forse era un po' più informato ma di politica, intesa in senso lato, non capivamo quasi nulla.
L'insegnante, una bella donna di circa 35 anni, ideologicamente orientata, senza strafare, a sinistra, non disse nulla. Aspettò le nostre domande. Parlò Lara, la più brava della classe nonché rappresentante degli studenti.
"Possiamo farlo?" chiese.
"In teoria no, dato che non sareste autorizzati e potreste incorrere in un provvedimento disciplinare del Consiglio di Classe o del Preside. In pratica, se volete, fatelo, ma ve ne assumerete la responsabilità. Qualora decidiate di andare, sappiate che per domani avevo intenzione di spiegare tale argomento di latino. Vorrà dire che lo studierete per conto vostro e porterete la versione relativa a pagina xx."
Così disse.
Io e Laura, la mia compagna di banco, ci guardammo. Se fossimo andate, cosa che morivano dalla voglia di fare e ci era bastato guardarci per saperlo, avremmo dovuto fare i conti con l'ira funesta dei nostri genitori. Però volevamo capire, volevamo sapere.
L'insegnante riprese la lezione.
Arrivata l'ora dell'assemblea non autorizzata, la rappresentante alzò la mano e, su cenno dell'insegnante che la autorizzava a parlare, disse: "Professoressa, mi perdoni, ma io vorrei partecipare a quella assemblea, assumendomene le responsabilità."
Raccolse i suoi libri, salutò, si alzò dal suo banco e si avvicinò alla porta. Immediatamente, tutti noi della IV C seguimmo il suo esempio. Guardammo dispiaciuti, ma non impauriti, l'insegnante e raggiungemmo il cortile.
Là c'erano altri studenti. Una buona parte di studenti. Non tutti.
Uno dei leader cominciò a parlare. "E' iniziata la mobilitazione!" urlò alla folla.

Ed io, guardando Laura, pensai che era iniziata anche la mia mobilitazione. (continua)

(Post già pubblicato su "Sala docenti" - Per rispetto della privacy alcuni dati sono stati cambiati ma, sostanzialmente, la vicenda è realmente accaduta)

sabato 28 novembre 2015

Gli ingranaggi

Che tristezza per coloro che accettarono
di essere gli ingranaggi di una macchina
credendo che fosse la loro voce
i monotoni rumori della macchina

Che orrore quando vedo
mani senza testa muovere la macchina
con movimenti ritmici, gli stessi,
che una voce di altri comanda

Che inaudito schifo
osservare occhi e bocca
di chi per conto di altri parla e guarda
anche loro ingranaggi della macchina

Che odio infinito
per chi uccide con mani altrui
quando con carne costruisce ingranaggi
scavando una fossa per la vita

Che amore, culto, ammirazione
verso coloro che si battono sempre
perché scoprano voce gli ingranaggi
e nella vita trovino uno scopo

Alekos Panagulis, SFM. (Carcere Militare di Boiati) Isolamento. Luglio 1971 (In : Gian Paolo Serino: "USA & GETTA  Fallaci - Panagulis    Storia di un amore al tritolo", Aliberti editore, Reggio Emilia, 2006, pgg. 79, 80).