domenica 27 dicembre 2015

Ragazza da parete

Forse anche lei era una ragazza da parete. 
Da sempre preferiva ascoltare, anche ciò che non veniva detto. 
Ecco perché le sembrava sempre di aver capito come sarebbero andate le cose: ascoltare le consentiva di prevedere ciò che sarebbe accaduto.
Non sempre ciò era un vantaggio, tutt'altro. Ma era così.








https://www.youtube.com/watch?v=EiXWCnKw-eE

sabato 26 dicembre 2015

Tornare

Ogni volta che mi capita di tornare nella regione in cui sono nata e in cui ho passato poco meno di un terzo della mia vita, vengo colta da un senso di estraneità. "Che ci faccio qui?" mi capita di pensare e, contemporaneamente, mi sorprendo a constatare che, in fondo, non c'è nessun luogo in cui vi siano le mie radici.

Sono nata in Puglia ma sono stata portata (o "deportata", come un collega simpatico amava dire a proposito della sua situazione assai simile alla mia) pochi mesi dopo in  Liguria, dove ho trascorso la prima parte della mia esistenza.

Alla Liguria sono tuttora molto legata anche se, già da bambina, c'era chi mi considerava un'estranea. "Napoletana": mi chiamava così qualcuno (da Roma in giù, per qualcuno, tutti sono "napoletani") ed io sentivo il peso dell'essere "diversa".

Quando, a dodici anni, la mia famiglia ritornò nella regione d'origine dove io ero nata, scoprii che anche lì mi consideravano un'estranea. Non conoscevo e non capivo il dialetto, avevo abitudini differenti. In sintesi, anche lì ero considerata diversa.
Inoltre, non apprezzavo nulla di quei luoghi (le spiagge della mia amata Liguria erano belle, anche e soprattutto perchè circondate dalle colline) e mal tolleravo la faciloneria e l'invadenza dei più, che veniva definità simpatia e disponibilità. Per me, taciturna e riservata, non era così.

Cominciai allora a pensare che, appena ne avessi avuto la possibilità, sarei andata via. In Liguria, possibilmente, o in qualunque altro luogo purché fosse più confacente a me stessa. Ero ormai consapevole che sarei sempre rimasta comunque un'estranea o, almeno, senza radici.

Quando, più di un quarto di secolo fa, arrivai a Bergamo, città in cui tuttora vivo, pensai che fosse adatta a me. Considerata comunque in principio un'immigrata "terrona" per lavoro, mi sorprendevo sempre più a familiarizzare con i colleghi lombardi piuttosto che con i pugliesi, i siciliani, i calabresi, i laziali, etc.

Non mi mancavano e non mi mancano né l'olio buono né le mozzarelle di bufala né i pomodori "come i nostri".

Insomma, a Bergamo sto davvero bene. Adoro le sue Mura e la sua bellezza, il suo cielo terso dopo una nevicata o dopo la pioggia, la sua efficienza. L'ho adottata come mia città (o Bergamo ha adottato me).
Così,  benché mi dispiaccia, tutte le volte che riparto dalla Puglia, lasciar lì mia madre ormai anziana e gli amici cui sono più profondamente legata, penso sempre che ogni volta, in fondo, mi pesa tanto tornarvi.

(Rielaborazione di un vecchio post precedentemente pubblicato su altro blog)


Macerie d'amore

Mi guardo intorno e sempre più spesso scopro, intorno a me, macerie d'amore.
Coppie che sembravano perfette, indissolubili, unite per l'eternità, che non esistono più e che anzi sono vittime della sofferenza d'amore, del rancore, della cattiveria, dei sensi di colpa per scelte precedenti che hanno fatto male ad entrambi i partner pur se in maniera a volte opposta.
L'amore può essere eterno. Ma a volte finisce. E quando finisce, prenderne atto fa soffrire. Scoprire che l'altro non ha più lo stesso significato fa soffrire entrambi. E, a volte, altri sono coinvolti nella vicenda.
I figli.
Gli amanti. Che non dovrebbero esserci. Ma ci sono. Esistono. E se sono entrati nella nostra storia è perché ne avevamo bisogno. Niente accade per caso o per capriccio.
Se si è lasciato che qualcuno bussasse alla nostra porta e gli abbiamo aperto, era perché ci mancava qualcosa.
E poi più niente è stato come prima.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 giugno 2010)

Compagno di scuola

Per molti della mia generazione "Compagno di scuola", tratta dall'album "Lilly" di Antonello Venditti e pubblicata nel 1975, è stata una delle canzoni di riferimento. C'era chi pensava con disprezzo al "compagno di scuola" evocato nella canzone, cui, tanti giuravano, mai avrebbero assomigliato. Sbagliavano, come spesso succede.
E molti di noi, attualmente, conoscono perfettamente quelli che davvero non sono diventati "compagni di scuola" e quelli che lo sono diventati ma non lo riconoscono e disprezzano gli altri, identici a loro.
 

 
Davanti alla scuola tanta gente 
otto e venti, prima campana 
"e spegni quella sigaretta" 
e migliaia di gambe e di occhiali 
di corsa sulle scale. 
Le otto e mezza, tutti in piedi 
il presidente, la croce e il professore 
che ti legge sempre la stessa storia 
nello stesso modo, sullo stesso libro, con le stesse parole
da quarant'anni di onesta professione. 
Ma le domande non hanno mai avuto 
una risposta chiara. 
la Divina Commedia, sempre più commedia 
al punto che ancora oggi io non so 
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito
un servo di partito. 


Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene 

perché, ditemi, chi non si è mai innamorato 

di quella del primo banco, 

la più carina, la più cretina, 

cretino tu, che rideva sempre 

proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole, 

gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto 

sotto il banco. 

Mezzogiorno, tutto scompare, 

"avanti! tutti al bar". 

Dove Nietzsche e Marx si davano la mano 

e parlavano insieme dell'ultima festa 

e del vestito nuovo, buono, fatto apposta 

e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te) 

e le assemblee, i cineforum, i dibattiti 

mai concessi allora 

e le fughe vigliacche davanti al cancello 

e le botte nel cortile e nel corridoio,
 
primi vagiti di un '68 

ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare! 

E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te... 

"Compagno di scuola, compagno di niente 

ti sei salvato dal fumo delle barricate? 

Compagno di scuola, compagno per niente 

ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?” 

(Antonello Venditti: "Compagno di scuola" - 1975)

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti")

venerdì 25 dicembre 2015

Improvvisamente...

... può succedere che la lettura delle pagine di un libro ti riporti indietro, tra esperienze e ricordi, lontani nella memoria, che si rianimano. Ed ecco, sei di nuovo nel '76 e hai di nuovo 15 anni.
"Non mi piaceva fingere di capire, ma mi faceva comodo: così almeno nessuno mi guardava storto o se la prendeva con me dicendomi che ero una qualunquista. Parola che allora si usava molto, come anche fascista. E se ti dicevano fascista o qualunquista, credo volesse solo dire che non facevi politica. Non era bello, eri finito e nessuno ti voleva più."

La citazione è tratta dal romanzo di Paola Mastrocola: "Più lontana della luna", Ugo Guanda Editore, Parma, 2007, pg. 76

(Post pubblicato sul blog "Sala docenti" il 28 dicembre 2007)

A volte spariscono

I miei alunni dicono che sono fissata. E' vero, lo sono. Molto fissata. Puntigliosa. Meticolosa.
Entro in classe, in qualunque ora della mattinata, e faccio l'appello. "Ma profe" - mi dicono -"gli assenti sono già segnati, non è la prima ora, questa."
Vero. Peccato però che può accadere (è accaduto) che a volte gli studenti spariscano. Vanno via. Escono dall'Istituto e non tornano più in classe. E quando lo si scopre, di chi è la colpa, se non dell'insegnante?
"E' l'insegnante che deve controllare che durante le ore di lezione nessuno vada via." Così di sentì dire una collega dal suo Dirigente Scolastico il giorno che, alla quarta ora (quella dopo l'intervallo) si accorse che due studenti non erano rientrati in classe uscendo dall'Istituto. "Bisogna fare l'appello sempre, appena si entra in classe, e segnalare le anomalie." Così parlò il Dirigente Scolastico.

Ed io, da quel giorno, appena entro in classe faccio l'appello. Non si sa mai. Perchè accade (è accaduto) che gli studenti a volte spariscono.

Mobilitazione (seconda parte)

Ci si mobilitò molto durante quel mio primo anno di scuola superiore. Le occasioni non mancavano mai ma ciò che portò all'occupazione della scuola furono il rigido regolamento d'Istituto (che, tra l'altro, vietava di portare a scuola qualunque altro materiale che non fosse strettamente scolastico "Quindi, anche il "Corriere della Sera" o "La Stampa"" come sosteneva il leader moderato, così veniva definito a causa della sua appartenenza alla federazione giovanile del PCI) e le precarie condizioni dell'Aula Magna che non consentivano di contenere più di cinque classi dell'Istituto ed impedivano, di fatto, lo svolgimento dell'assemblea plenaria di tutti gli studenti dell'Istituto.
L'occupazione passò soprattutto grazie ai voti favorevoli di noi studenti di quarta ginnasio. Inutile dirlo: subivamo il fascino dei leader, "moderati" o dell'estrema sinistra che fossero.
Leader carismatici. Autoritari. Quasi stalinisti. Approvata l'occupazione, concessero appena un quarto d'ora per decidere se volessimo rimanere a scuola o se volessimo "democraticamente" uscire dall'Istituto "okkupato".
Per uscire, io, Laura e un'altra nostra compagna di classe scavalcammo la finestra del pianterreno (il primo giorno) e ci facemmo venire a prendere dal padre della nostra compagna, un poliziotto che naturalmente si presentò in divisa. "L'ha chiamata il preside?" chiesero i capi. "No, devo prendere mia figlia e le sue amiche." rispose lui. Peggio andò ad un mio compagno di classe che si era portato anche il sacco a pelo e che venne prelevato dal suo genitore che lo afferrò letteralmente per le orecchie.
Durante l'occupazione, chi era a scuola non poteva pensare di stare a bighellonare (almeno di giorno, di notte non so, visto che non ebbi l'occasione di rimanervi).
Tutti dovevano seguire almeno un seminario. C'erano quelli che trattavano di filosofia politica ed erano di fatto disertati e quelli che affrontavano lo studio e l'analisi dei decreti delegati, la nuova proposta di regolamento da dare al nostro Istituto e varie problematiche sociali come la condizione femminile e l'autodeterminazione delle donne. Seguii quest'ultimo e scoprii una realtà che fino a quel momento ignoravo: la piaga degli aborti clandestini.
In uno dei due pomeriggi i leader organizzarono un concerto: ho ancora il ricordo delle note e delle parole delle canzoni degli Inti Illimani e di "in fila per tre" di Bennato e "La locomotiva" di Guccini e "Pablo" di De Gregori.
Al terzo giorno l'occupazione finì. Armati di secchi e stracci ripulimmo tutto sotto gli occhi vigili di bidelli, docenti e preside.
Inutile dire che la promessa dell'assessore comunale competente di "costruire una scuola sicura ed adeguata" rimase tale e solo cinque anni dopo essermi diplomata venni a sapere che finalmente, era appena stata inaugurata la nuova sede dell'Istituto.
Di quegli anni conservo vivo questo ricordo e una consapevolezza: i nostri leader, di fatto, sostituivano i docenti quando organizzavano qualunque iniziativa che riguardasse strettamente l'attivismo degli studenti. Erano rigidi ed autoritari, proprio come i docenti che dicevano di contestare. Non so se qualche insegnante, magari più "democratico" indirizzasse le loro scelte.

Di sicuro, durante le assemblee degli studenti, i docenti non erano ammessi. Per nessuna ragione. Nemmeno i più "democratici".

(Post già pubblicato sul blog "Sala docenti" - Per motivi di privacy alcuni dati sono stati cambiati ma sostanzialmente la vicenda narrata è realmente accaduta)

Mobilitazione (prima parte)

Appena arrivata al liceo, cominciai a sentir parlare di "mobilitazione".
Era passato poco più di un lustro dal periodo delle grandi contestazioni studentesche, i decreti delegati erano entrati in vigore da circa due anni e tutti, anche coloro che li consideravano un "contentino" concesso dal potere costituito per placare la rivolta studentesca, cercavano di utilizzarli al meglio: erano comunque un'occasione di democrazia nella scuola, un'occasione di partecipazione e, dunque, parafrasando Gaber, di libertà.
Certo, le ore mensili di assemblee concesse erano ben poca cosa rispetto alle assemblee permanenti di qualche stagione prima, ma gli studenti non si perdevano d'animo.
Mi accadde così di assistere, nel dicembre del 1975, alla convocazione immediata di un'assemblea non autorizzata.
I leader del movimento studentesco della mia scuola bussarono alla porta, salutarono l'insegnante di lettere (al ginnasio di solito in aula c'è sempre l'insegnante di lettere, dato che svolge le sue 18 ore settimanali su una sola classe) e dissero: "Vorremmo avvisare gli studenti che tra mezz'ora è convocata un'assemblea non autorizzata degli studenti, assemblea che si svolgera nel cortile della scuola. Se volete partecipare, ed è un vostro diritto, lasciate l'aula e raggiungeteci in cortile." Salutarono e se ne andarono.
Noi ci guardammo perplessi e poi rivolgemmo uno sguardo interrogativo verso l'insegnante. Avevamo tutti tra i tredici e i quattordici anni. Qualcuno di noi forse era un po' più informato ma di politica, intesa in senso lato, non capivamo quasi nulla.
L'insegnante, una bella donna di circa 35 anni, ideologicamente orientata, senza strafare, a sinistra, non disse nulla. Aspettò le nostre domande. Parlò Lara, la più brava della classe nonché rappresentante degli studenti.
"Possiamo farlo?" chiese.
"In teoria no, dato che non sareste autorizzati e potreste incorrere in un provvedimento disciplinare del Consiglio di Classe o del Preside. In pratica, se volete, fatelo, ma ve ne assumerete la responsabilità. Qualora decidiate di andare, sappiate che per domani avevo intenzione di spiegare tale argomento di latino. Vorrà dire che lo studierete per conto vostro e porterete la versione relativa a pagina xx."
Così disse.
Io e Laura, la mia compagna di banco, ci guardammo. Se fossimo andate, cosa che morivano dalla voglia di fare e ci era bastato guardarci per saperlo, avremmo dovuto fare i conti con l'ira funesta dei nostri genitori. Però volevamo capire, volevamo sapere.
L'insegnante riprese la lezione.
Arrivata l'ora dell'assemblea non autorizzata, la rappresentante alzò la mano e, su cenno dell'insegnante che la autorizzava a parlare, disse: "Professoressa, mi perdoni, ma io vorrei partecipare a quella assemblea, assumendomene le responsabilità."
Raccolse i suoi libri, salutò, si alzò dal suo banco e si avvicinò alla porta. Immediatamente, tutti noi della IV C seguimmo il suo esempio. Guardammo dispiaciuti, ma non impauriti, l'insegnante e raggiungemmo il cortile.
Là c'erano altri studenti. Una buona parte di studenti. Non tutti.
Uno dei leader cominciò a parlare. "E' iniziata la mobilitazione!" urlò alla folla.

Ed io, guardando Laura, pensai che era iniziata anche la mia mobilitazione. (continua)

(Post già pubblicato su "Sala docenti" - Per rispetto della privacy alcuni dati sono stati cambiati ma, sostanzialmente, la vicenda è realmente accaduta)

Compiti per le vacanze

Li ho sempre detestati, sin da quando, bambina, mi venivano assegnati. Mi riducevo a svolgerli l'ultimo giorno di vacanza, tra gli sguardi torvi dei miei che mal tolleravano quella pessima abitudine. Ma io pensavo (e penso tuttora) che le vacanze siano sacre e se sono sacre non devono essere dedicate ai compiti ma ad altro rispetto alle abituali attività.
I miei studenti lo sanno: assegno sempre pochi (o non ne assegno affatto) compiti per le vacanze. Al massimo indico con abbondante anticipo qualche libro da leggere o una poesia da imparare a memoria.
Ecco perché io stessa non mi sogno nemmeno di correggere i pacchi di compiti durante le vacanze di Natale. 
Quando ne ho (quest'anno non ne ho) lo faccio solo a partire dal 7 gennaio. 
Ciò significherà che, per par condicio, non potrò controllare i compiti o interrogare il 7 gennaio.

La vacanza è sacra e deve essere rispettata. Vale per me come per i miei studenti.

(Post già pubblicato su "Sala docenti")

Il trenino a scartamento sociale (ricordi del Natale)

C'è, nei ricordi di ciascun adulto, la memoria di un Natale particolarmente significativo perché  magico o, come nel caso dell'autore del post pubblicato di seguito, decisamente istruttivo.


Il trenino a scartamento sociale

Il Natale del 1969 lo ricordo da sempre per due eventi che lo hanno caratterizzato. Il primo evento è stato il coronamento di un sogno di bambino, mentre il secondo ha rappresentato un passo verso la crescita di quel bambino.
Quell'anno dicembre arrivò come sempre con i suoi riti: la chiusura della scuola per le vacanze natalizie, l'affannarsi di mia madre a preparare i dolci della tradizione unito ad  un ciclo di pulizie extra della casa sotto l'egida del “caso mai viene qualcuno”.
Io avevo sette anni e pregustavo, come tutti i bambini di quella età, l'arrivo del Natale con l'aspettativa del regalo e delle serate da passare in piedi sino a tardi con gli adulti.
Quell'anno però era successa una cosa straordinaria per il mio paese di origine. Immediatamente dopo l'estate, come riflesso ritardato del boom economico, era stato aperto nel centro della città il magazzino Standa.
In pratica l'apertura del punto Standa rappresentò una novità per tutti, ma in particolare per noi bambini dell'epoca, in quanto all'interno era presente il reparto giocattoli. A ripensarci oggi mi viene quasi da ridere se considero le dimensioni degli odierni Centri Commerciali, ma per quegli anni era quanto di più spettacolare si potesse vedere. 
Il reparto giocattoli si componeva di due scaffali contrapposti lunghi alcuni metri nei quali erano esposti i giocattoli.
Sino ad allora i giocattoli erano acquistabili presso l'unico negozio presente in città oppure sulle bancarelle del mercato settimanale, ma mai si era visto un tale assortimento.
La cosa ancora più straordinaria fu che per tutto il mese di dicembre furono allestiti dei tavoli dove alcuni giocattoli erano fruibili   e,  udite udite, si potevano toccare e ci si poteva giocare.
Io rimasi affascinato da tutta quella novità ed alla fatidica domanda “Cosa chiedi a Babbo Natale?” io  espressi il mio desiderio di avere in regalo un trenino elettrico.
Arrivò la tanto sospirata notte di Natale e con  essa il momento di ricevere i regali. Babbo Natale mi aveva ascoltato, beh, non proprio bene, sarà stato per via dell'età.....
Mi fu regalato un trenino con carica a molla che girava lungo dei binari di plastica formanti  un ovale non più grande del tavolo della cucina.
Io ero contento lo stesso e giocai quasi ininterrottamente per i giorni seguenti.
Con una scatola di scarpe che forai sui lati dotai la mia personale linea ferroviaria di una rudimentale galleria.
Dopo alcuni giorni ebbi l'occasione di andare a casa di un mio compagno di classe per fare insieme i compiti assegnati per le vacanze, e la prima cosa che mi disse accogliendomi in casa fu che come regalo di Natale aveva ricevuto un trenino.
Sul momento io risposi che anche io avevo ricevuto lo stesso regalo, ma fu quando vidi il suo trenino che mi accorsi che i due oggetti, pur appartenendo allo stesso concetto di giocattolo, erano sostanzialmente diversi.
Il suo trenino era bellissimo. Era tutto in metallo e correva su dei binari di acciaio scintillante, inoltre l'intero trenino era collocato all'interno di un plastico che riproduceva un paesaggio alpino con tanto di montagna attraversata da un tunnel nel quale il trenino passava illuminando l'interno con i suoi piccoli fari anteriori.
Insomma, un abisso tra il mio trenino e quella meraviglia, e mi resi rapidamente conto che nonostante l'essere seduti nello stesso banco ed indossare il grembiule dello stesso modello e colore le uguaglianze finivano li e che quel trenino era a “scartamento sociale”.
(Ringrazio Anonimo che mi ha fornito questo testo autorizzandomi a pubblicarlo qui)