Visualizzazione post con etichetta uomini e donne. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta uomini e donne. Mostra tutti i post

giovedì 28 aprile 2022

Il cognome del padre e della madre

#ancoratantodafare

 A Samantha Cristoforetti, alla vigilia della sua partenza per lo Spazio, è stato chiesto a chi avrebbe lasciato i suoi figli. "Al padre." ha risposto lei.

Ecco, a un astronauta di genere maschile, nessuno si sarebbe sognato di fare la stessa domanda.
La questione del cognome del padre e della madre, per essere affrontata, ha avuto bisogno di una spallata della Corte Costituzionale.
Ma per il resto c'è ancora tanto, tanto, tanto da fare.

giovedì 11 marzo 2021

10 marzo

 E ora, dopo tutti gli slogan, e i fiori, spesso mimose, e le belle parole, ci aspetteremmo, in ordine sparso:

- nidi e scuole dell'infanzia pubblici e di quartiere, se possibile aperti 24 ore su 24 (se lo fanno i supermercati, possono farlo anche gli asili nido, anche perché potrebbe essere che i genitori di quei bambini lavorino proprio nei supermercati aperti 24 ore su 24)
-fasciatoi anche nei bagni per signori, come accade nei Paesi dell'Europa del Nord
- un welfare che non si limiti a riconoscere un bonus una tantum a chi ha dei figli ma che consenta a tutti, uomini e donne, di scegliere serenamente di diventare genitori potendo assicurare cibo e beni primari per sé e per i propri figli
- politiche sociali e del lavoro che non costringano le donne a dover scegliere tra lavoro e maternità, tra lavoro e cura di familiari
- il riconoscimento del valore e dei talenti di ciascuno, indipendentemente dal proprio genere
- il superamento di una cultura sessista, strisciante e dominante.
Ok. Per oggi ho finito. ⏰

domenica 24 novembre 2019

C'è ancora tanto da fare

La cultura alla quale apparteniamo - come ogni altra cultura - si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: fra questi anche il 'mito' della "naturale" superiorità maschile contrapposta alla "naturale" inferiorità femminile. In realtà non esistono qualità "maschili" e qualità "femminili", ma solo "qualità umane". L'operazione da compiere dunque "non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene". (Elena Gianini Belotti: «Dalla parte delle bambine» - Feltrinelli – 1973)



"[...] Abbiamo bisogno di forti voci e di salde immagini femminili
che confliggano con la tradizione patriarcale che forgia e intrappola donne e uomini in stereotipi che soffocano le relazioni, gli affetti, i sentimenti e le emozioni. Non abbiamo bisogno di passare alle giovani generazioni l'immaginario standard di donne fragili e uomini duri, o al massimo buoni perché protettivi (protettori?). Fragili lo siamo tutte e tutti, è la natura umana. Insieme, fragili e forti, volta per volta, alla ricerca di un equilibrio difficile, nel quale sono presenti momenti di incertezza, ma mai, mai e in nessun caso, dove la violenza sia prevista, tollerata, giustificata." (Monica Lanfranco: "Crescere uomini, Erickson, Trento, 2019, Pag. 34)

domenica 25 novembre 2018

C'è ancora tanto da fare

Non sono solo le minacce, le urla, i pedinamenti, le botte, gli assassini. Le donne sono vittime di violenza ogni volta che sentono il peso di una cultura soffocante che le costringe a tacere, a mediare, ad accettare sopportando, quotidianamente, di essere quello che non sono.
Sono vittime di violenza quando nascondono i propri sentimenti più veri in nome di un modello femminile che le vuole pazienti, dolci, delicate, altruiste, pronte a sacrificare sempre sé stesse  e i propri desideri per favorire quelli dei figli, dei partner, dei genitori e di chiunque altro si aspetta da loro che sì, lo faranno, perché è sempre stato così.
Sono vittime di violenza quando si sentono schiacciare dal senso di colpa ogni volta che si concedono una serata con le amiche o un paio d'ore di libertà per pensare solo ed esclusivamente a sé stesse, financo quando, per motivi di lavoro, devono trattenersi più a lungo in ufficio mentre a nessun uomo salterebbe in mente di sentirsi in colpa per una partita a calcetto con gli amici o per essersi trattenuto in ufficio più a lungo per motivi di lavoro.
Dietro il femminicidio c'è il retaggio di una cultura dura a morire, di una cultura che non accetta che le donne siano considerate persone che possono dire NO, ribellarsi, andarsene, cambiare idea e che, soprattutto, pensino innanzi tutto a sé stesse, a volersi bene, ad essere egoiste, di quel sano egoismo cui ciascun individuo ha diritto.
Ecco perché non basta un segno rosso sul viso in segno di solidarietà ed attenzione. Ecco perché non bastano cortei, manifestazioni e giornate dedicate.
Ecco perché c'è ancora tanto da fare.

mercoledì 10 ottobre 2018

Per sempre

Giura che lo ama. 

Che resteranno insieme per sempre. 

Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.

Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 60.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Rielaborazione di un vecchio post già pubblicato sulla piattaforma Splinder)

domenica 12 agosto 2018

Non sono solo canzonette...

... se, pur parlando d'amore, evidenziano, nemmeno troppo velatamente, un'idea: quella di una donna fragile e insicura che si affida a un uomo di cui è proprietà ("Donna donna mia", canzone del 1979, interpretata da Toto Cutugno) o di una donna che, proprio perché appartiene a un uomo, non può pretendere di lasciarlo ("Io che non vivo", del 1965, interpretata da Pino Donaggio).
Qualcuno potrà osservare che si tratta di canzoni ormai vecchie e legate a una tradizione musicale nazional - popolare da cui si è attualmente lontani.
Ma quella tradizione ha alimentato una cultura di cui, ancora oggi, si fa fatica a liberarsi: un'idea di amore come possesso e non come occasione di affetto che dura nel tempo, libero come un dono incondizionato che nulla pretende in cambio ("Come prima", interpretata nel 1958 da Tony Dallara).

Di seguito, i link e i testi delle canzoni citate.


Tu, che strana davvero tu 
accendi la tua tivù
e non parli, non ridi più
non dirmi che non ti va più 
dai non far quella faccia lì
non è certo finita qui 
un po' fragile, un po' insicura 
non dirmi che non sei più
mia
mia mia mia 
donna donna mia 
mia mia mia mia 
non dirmi che tu 
vuoi andare via 
mia 
nella mente, nel cuore mia 
nei miei sogni e nel tempo mia 
non tremar, non aver paura 
non sei un'avventura e sei mia 
nei tuoi sogni proibiti, mia 
nei miei sogni proibiti, mia 
un po' donna e un po' bambina 
sorridi e mi vieni vicina 

più di questo che vuoi di più 
dimmi cosa ti manca in più' 
un po' fragile, un po' insicura 
ti amo e lo sai che sei mia 
mia mia mia mia 
donna donna mia 
mia mia mia mia 
non dirmi che tu 
vuoi andare via 
mia 

nella mente, nel cuore mia 
nei miei giorni e nel tempo mia 
non tremar, non aver paura 
non sei un'avventura e sei mia 
nei tuoi sogni proibiti, mia 
nei miei sogni proibiti, mia 
un po' donna e un po' bambina 
sorridi e mi vieni vicina


https://www.youtube.com/watch?v=N3W7qlMZTXY

Siamo qui noi soli
come ogni sera
ma tu sei più triste
ed io lo so
perché
forse tu vuoi dirmi
che non sei felice
che io sto cambiando
e tu mi vuoi lasciar

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia
mai niente lo sai
separarci un giorno potrà

Vieni qui ascoltami
io ti voglio bene
te ne prego fermati
ancora insieme a me

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia
mai niente lo sai
separarci un giorno potrà
Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita
senza te
sei mia
sei mia

Io che non vivo
più di un'ora senza te
come posso stare una vita

senza te
sei mia
sei mia
sei mia





Come prima, più di prima t'amerò 
Per la vita, la mia vita ti darò 
Sembra un sogno rivederti, accarezzarti 
le tue mani, fra le mani stringere ancor 

Il mio mondo, tutto il mondo sei per me 
a nessuno voglio bene come a te 
Ogni giorno, ogni istante, dolcemente ti dirò 
«Come prima, più di prima t'amerò» 

Come prima, più di prima t'amerò 
Per la vita, la mia vita ti darò 
Ogni giorno, ogni istante, dolcemente ti dirò 
«Come prima, più di prima t'amerò»  


giovedì 18 maggio 2017

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder, successivamente sul blog "La panchina in cima al monte" e su questo blog il 10 Gennaio 2016)

giovedì 30 giugno 2016

Papaveri rossi


Papaveri rossi. Per denunciare chi sostiene che "in fondo se l'è cercata". Per denunciare chi afferma che "è stata una ragazzata". Per denunciare chi sostiene che "in fondo l'amava e non voleva perderla". Per esprimere tutto il mio disprezzo, la mia rabbia, la mia ribellione, il mio disgusto. Per affermare ci sono, che ho lottato e comunque ancora lotto per me, per tutte le donne e per tutti gli uomini che, liberi da pregiudizi e false credenze, credono ancora che possa esistere un mondo migliore.

domenica 12 giugno 2016

Oltre l'apparenza e il pregiudizio

Quotidianamente, a volte senza rendersene conto, accade di avere dell'altro, qualunque età abbia, a qualunque genere appartenga, un'idea fondata su un pregiudizio o che anche solo si limita a basarsi su un pregiudizio.
Gli stereotipi della "Bella uguale stupida" (che, negli ultimi decenni ha coinvolto anche gli uomini "Belli uguale stupidi"), o quello del milanese lavoratore indefesso e del romano fannullone nonché tutti gli altri giudizi stereotipati o che si limitano a fermarsi alle apparenze senza indagare oltre, caratterizzano buona parte delle credenze del genere umano.
Fermarsi all'apparenza o limitarsi ad accettare gli stereotipi e le categorie definite facilita la definizione di quanto e di chi ci sta intorno ma non ci aiuta a conoscere il mondo, non ci aiuta a conoscere gli altri e, forse, nemmeno noi stessi.
Andare oltre l'apparenza dovrebbe essere l'obiettivo di ciascuno di noi per conoscere ed apprezzare tutti coloro che ci stanno intorno, al di là delle false opinioni e certezze di cui, alcuni, continuano a nutrirsi.
La famiglia e soprattutto la scuola possono fare molto. 
E sarebbe un traguardo riuscire a far sì che, nel giro di pochi anni, non ci si trovi ancora di fronte a tabelle di raccolta di idee che degli uomini e delle donne riportino certe definizioni.


STEREOTIPI E PREGIUDIZI DI GENERE
IN UNA PAROLA


DEFINIZIONI DATE DA UOMINI 
DEFINIZIONI DATE DA DONNE
UOMINI
DONNE
UOMINI
DONNE
EGOISTI
RISOLUTE
STUPIDI
COMPLESSE
ONESTI
LUNATICHE
INCOMPRENSIBILI
PARANOICHE
NOBILTA’ D’ANIMO
BELLEZZA
EGOISTI (2)
SENSIBILI (4)
VERI AMICI
SENSUALE
IMMATURI
DETERMINATE (2)

mercoledì 3 febbraio 2016

Uteri in affitto

Un tempo, quando le tecnologie non erano così sviluppate, le coppie che desideravano un figlio ma non riuscivano ad averne ricorrevano a una modalità che si potrebbe definire "utero in affitto" ante litteram, per quanto, più che di utero in affitto sarebbe più opportuno parlare di "coppia fecondante al servizio di coppia sterile".
La pratica, abbastanza diffusa anche se non sempre esplicitamente ammessa, consisteva nel generare, gratuitamente, s'intende, un figlio destinato a una coppia sterile che sarebbe diventata la coppia genitoriale del feto appositamente messo in cantiere. Solitamente uno dei membri della coppia sterile era un fratello o una sorella della coppia fertile, tanto fertile da potersi permettere una ricca prole da destinare poi ai meno fortunati.

Famiglia e società civile

La famiglia la si sostiene insegnando ad amarsi reciprocamente incondizionatamente, accettando, ciascuno dei componenti e comunque sia composta, di rispettare l'altro amandolo per come è e non per come si vorrebbe che fosse, accettando le sue scelte e il suo modo di essere sé stesso.
Il rispetto reciproco lo si impara in famiglia. Solo così potrà poi esistere all'interno delle altre strutture sociali e nella società stessa. Il resto sono solo parole, proclami, ideologie. Così credo che debba essere una famiglia. Così credo debba essere una società che si definisce civile.

A proposito di famiglia...

La famiglia si difende non con manifestazioni di piazza ma con politiche sociali assennate che prevedano asili nido e scuole materne pubbliche, che non richiedano rette improponibili.
La famiglia si sostiene con congedi di maternità e paternità, con asili presso le aziende e i posti di lavoro, con un'organizzazione sociale che non faccia della maternità e della paternità un'impresa riservata solo ai più audaci. Il resto sono solo parole (rivolgersi a Germania, Danimarca, Svezia, per esempio, per trarre ispirazione per una politica familiare accettabile).

giovedì 21 gennaio 2016

"Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)


Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

mercoledì 13 gennaio 2016

Le ragioni del cuore

"Se ne farà una ragione", gli aveva risposto, quando lui le aveva parlato di Marco, della sua sofferenza, della sua difficoltà ad accettare la loro separazione.
Marco era un suo collega e il suo migliore amico, gli dispiaceva non riuscire a far nulla per lui. E forse proprio per questo, quando l'aveva incontrata, le aveva parlato di lui.
Ora, di fronte a quella risposta, di fronte a quel "Se ne farà una ragione", era ammutolito e imbarazzato.
Ricordava di averli visti felici insieme, una coppia solida e complice che suscitava l'ammirazione (e a volte anche un po' di invidia) degli altri. E poi...
E poi tutto era finito. Senza nessun segnale. Improvvisamente. Come un uragano che aveva travolto la vita di coppia di Marco che, gli aveva raccontato, era convinto che lei fosse la donna della sua vita e con lei sarebbe rimasto per sempre. Gli aveva parlato di lei, dopo averla incontrata, proprio in questi termini: lei era la sua donna ideale, era una storia definitiva.
Ma in amore non esistono le definizioni. L'amore non si definisce. Ha bisogno di cure, quotidiane, costanti, continue. Altrimenti, come una pianta trascurata, muore.
Marco non aveva capito che quell'amore che credeva eterno si stava consumando nella noia quotidiana, nella certezza di una definizione. Aveva dato per scontato quell'amore.
Lei c'era, era lì per sempre. E, certo di questo, non aveva colto i segnali che lei, da un certo momento in poi, aveva cominciato a mandargli.
Usciva sempre più spesso, con un'amica. Con le amiche. Da sola. Comunque senza di lui.
A pensarci bene, a differenza del passato, non sembravano nemmeno più tanto solidi e complici.
Di quel periodo ricordava di averla incontrata qualche volta per caso. Da sola. O con qualche amica. Ricordava anche che, in un paio di quelle occasioni, lei si era lamentata dell'eccessivo carico di lavoro di Marco. "E' a casa, sta lavorando." oppure "Sai, lo vedi più tu di quanto non lo veda io."
Non aveva considerato quelle risposte fino a quando, una mattina di settembre, Marco era arrivato in ufficio in ritardo, scompigliato, trasandato, stravolto. "Mi ha lasciato." Gli aveva detto.
Erano passati cinque anni da allora. Quella coppia non esisteva più, almeno per l'anagrafe.
Tuttavia, nonostante fosse passato un po' di tempo, Marco non riusciva a farsene una ragione.
E come avrebbe potuto? Lui la amava. Di un amore definitivo. Che, una volta conquistato, non ha bisogno di cure. Lei c'era e ci sarebbe stata per sempre. Così aveva pensato lui, il giorno del loro matrimonio.
Tale era la sua convinzione. E questo, forse, gli aveva impedito di vedere negli occhi di lei un'ombra, quell'ombra che, a poco a poco, era diventato grigiore e noia.
Quella stessa convinzione gli aveva impedito di ascoltare i pianti notturni di lei, pianti soffocati per non farsi sentire da lui che, sereno come un angioletto, dormiva al suo fianco.
Era stato difficile per lei prendere atto di quanto stava accadendo. Ma i segnali c'erano. Tutti.
Non riusciva più a vedere negli occhi di Marco quelli del ragazzo che l'aveva incantata al primo sguardo, che l'aveva conquistata con la sua intelligenza e la sua creatività, che l'aveva fatta piangere di gioia e di timore che altre lo seducessero e glielo portassero via, che l'aveva avvolta magicamente e le aveva fatto credere di essere la più fortunata e la più felice di tutte le donne.
Lui la amava ancora. Era quello il suo modo di amare.  Ma lei non lo amava più. Aveva cercato di parlargliene ma lui non era stato capace di ascoltarla.
E quando, dopo aver meditato a lungo, aveva preso la sua decisione, una decisione irrevocabile, gliela aveva comunicata.
Era andata via.
"Se ne farà una ragione", aveva pensato.
Trascurando che, come aveva imparato leggendo "I pensieri" di Pascal, "il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce".
(Vecchio post già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

domenica 10 gennaio 2016

Vestita da donna

Ornella era la più brava della classe. I suoi compagni la stimavano, la rispettavano, la coccolavano non solo perché, con generosità, era sempre pronta ad aiutarli nello studio, spiegando loro ciò che non avevano capito durante le lezioni, ma anche perché, in quella classe composta da 25 studenti, era l'unica ragazza.
Una ragazza che frequentava, brillantemente, un Istituto Tecnico ad indirizzo "Elettronica e Telecomunicazioni". Rare le ragazze, in quel tipo di corso. Guardate con scetticismo, soprattutto dai docenti delle discipline tecniche e professionali, ingegneri di sesso maschile convinti della naturale inferiorità della donna.
Ornella, grazie alle sue capacità intellettive, era riuscita a convincere anche loro che, a volte, qualche eccezione può esistere.
Gli ottimi voti ottenuti se li era guadagnati studiando, senza ammiccamenti femminili o gambe e seni scoperti.
Il suo abbigliamento era rigorosamente unisex, nessuna concessione a fronzoli od altro.
Mantenne lo stesso stile per tutti i cinque anni di scuola.
Solo il giorno del colloquio orale degli esami di maturità, arrivò a scuola "vestita da donna".
Le disse proprio così il commissario interno, il professore di Sistemi, vedendola con il lungo abito estivo (una specie di tunica) che lei, quel giorno, aveva indossato.
"Cosa hai fatto, ti sei vestita da donna?"

Ornella arrossì, rispose con un sorriso garbato e, arrivato il suo turno, si sedette e mostrò alla commissione che, anche vestita da donna, aveva un cervello che funzionava. Come, anzi, meglio di quello dei tanti uomini che la circondavano.
(Già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder e successivamente sul blog "La panchina in cima al monte")

domenica 3 gennaio 2016

Per sempre

Giura che lo ama. Che resteranno insieme per sempre. Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.
Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 55.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Già pubblicato sul blog "Sala Docenti")

domenica 27 dicembre 2015

Ragazza da parete

Forse anche lei era una ragazza da parete. 
Da sempre preferiva ascoltare, anche ciò che non veniva detto. 
Ecco perché le sembrava sempre di aver capito come sarebbero andate le cose: ascoltare le consentiva di prevedere ciò che sarebbe accaduto.
Non sempre ciò era un vantaggio, tutt'altro. Ma era così.








https://www.youtube.com/watch?v=EiXWCnKw-eE

sabato 26 dicembre 2015

Macerie d'amore

Mi guardo intorno e sempre più spesso scopro, intorno a me, macerie d'amore.
Coppie che sembravano perfette, indissolubili, unite per l'eternità, che non esistono più e che anzi sono vittime della sofferenza d'amore, del rancore, della cattiveria, dei sensi di colpa per scelte precedenti che hanno fatto male ad entrambi i partner pur se in maniera a volte opposta.
L'amore può essere eterno. Ma a volte finisce. E quando finisce, prenderne atto fa soffrire. Scoprire che l'altro non ha più lo stesso significato fa soffrire entrambi. E, a volte, altri sono coinvolti nella vicenda.
I figli.
Gli amanti. Che non dovrebbero esserci. Ma ci sono. Esistono. E se sono entrati nella nostra storia è perché ne avevamo bisogno. Niente accade per caso o per capriccio.
Se si è lasciato che qualcuno bussasse alla nostra porta e gli abbiamo aperto, era perché ci mancava qualcosa.
E poi più niente è stato come prima.

(Già pubblicato su altra piattaforma il 13 giugno 2010)