martedì 12 gennaio 2016

Cose utili e inutili

Io ripartirei da qui. Dall'affermazione di Don Lorenzo Milani "La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene." riportata in "Una lezione alla scuola di Barbiana" (Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pg.11).
E' indubbio che quelle che cinquant'anni fa Don Milani riteneva "cose inutili" attualmente possano essere considerate utilissime, o viceversa.
In generale, riprendendo la citazione del priore di Barbiana, devono considerarsi cose utili "quelle cose che il mondo non insegna".
Attualmente sono tantissime le cose che il mondo non insegna: il rispetto per sè stessi e per gli altri, la passione, la curiosità vera, l'arte di saper aspettare, la bellezza, il sacrificio.
A scuola ci si può (anzi, a mio avviso si deve) dedicare al ballo, alla musica, al teatro etc., a patto che non lo si faccia seguendo mode e fenomeni culturali di basso profilo (che potrebbero al limite essere analizzati per la loro capacità di attrarre le masse).
La scuola che auspico è quella che dia a tutti la possibilità di crescere, di scoprire sé stessi e le proprie potenzialità, di formarsi come persona nel senso più completo del termine, imparando a non farsi schiacciare dalle mode, dalla massa che tutto omologa e appiattisce.

‎(Vecchio post, già pubblicato sulla piattaforma Splinder da Critolao il ‎17 ‎giugno ‎2008 ma oggi come allora attualissimo)

domenica 10 gennaio 2016

Vestita da donna

Ornella era la più brava della classe. I suoi compagni la stimavano, la rispettavano, la coccolavano non solo perché, con generosità, era sempre pronta ad aiutarli nello studio, spiegando loro ciò che non avevano capito durante le lezioni, ma anche perché, in quella classe composta da 25 studenti, era l'unica ragazza.
Una ragazza che frequentava, brillantemente, un Istituto Tecnico ad indirizzo "Elettronica e Telecomunicazioni". Rare le ragazze, in quel tipo di corso. Guardate con scetticismo, soprattutto dai docenti delle discipline tecniche e professionali, ingegneri di sesso maschile convinti della naturale inferiorità della donna.
Ornella, grazie alle sue capacità intellettive, era riuscita a convincere anche loro che, a volte, qualche eccezione può esistere.
Gli ottimi voti ottenuti se li era guadagnati studiando, senza ammiccamenti femminili o gambe e seni scoperti.
Il suo abbigliamento era rigorosamente unisex, nessuna concessione a fronzoli od altro.
Mantenne lo stesso stile per tutti i cinque anni di scuola.
Solo il giorno del colloquio orale degli esami di maturità, arrivò a scuola "vestita da donna".
Le disse proprio così il commissario interno, il professore di Sistemi, vedendola con il lungo abito estivo (una specie di tunica) che lei, quel giorno, aveva indossato.
"Cosa hai fatto, ti sei vestita da donna?"

Ornella arrossì, rispose con un sorriso garbato e, arrivato il suo turno, si sedette e mostrò alla commissione che, anche vestita da donna, aveva un cervello che funzionava. Come, anzi, meglio di quello dei tanti uomini che la circondavano.
(Già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

Non è una malattia

Sentii parlare di omosessualità, per la prima volta, nel novembre del 1975. Intendo dire che ne sentii parlare in modo serio, senza risolini o battutacce, quelle che tanto piacciono agli uomini di tutte le età.
Il 2 novembre 1975 era stato ucciso Pier Paolo Pasolini e Pino Pelosi, "diciassettenne legato al mondo della prostituzione maschile" (come si legge su "L'Italia del '900 - 1972 - 1975" di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, Rizzoli, Milano, 2007, pag. 219), aveva confessato di essere l'assassino.
Io frequentavo la quarta ginnasio. La mia insegnante di lettere ce ne parlò e ci invitò a leggere quotidiani e riviste per documentarci sull'argomento. Già da allora emergevano forti dubbi e interrogativi su quello che potesse essere davvero accaduto. Tuttavia ciò che, soprattutto su certa stampa, si tendeva a mettere in evidenza, erano le abitudini sessuali di Pasolini. Non la sua lucidità e la sua perspicacia intellettuale.
Lo confesso. Io, all'epoca, non leggevo molto i quotidiani, se non la "Gazzetta" locale. Ugualmente, tra i settimanali, mi informavo su "Famiglia Cristiana", "Gente", "Oggi" e (mi vergogno un po' ad ammetterlo adesso, ma è così) "Bolero telefilm", ovvero i giornali che trovavo in casa mia.
Così, quando l'insegnante ci assegnò un tema di attualità sull'argomento ed io, alla luce delle mie fonti, scrissi che, in fondo, bisognava compatire Pasolini perché era malato di omosessualità, mi ritrovai con il compito corretto dall'insegnante che, a margine di tale affermazione, aveva scritto, in rosso e a caratteri cubitali: "Non è provato che l'omosessualità sia una malattia, può essere una libera scelta dell'individuo che asseconda una sua naturale tendenza!".
Restai confusa. Per qualche mese non mi interessai più della questione, anche se, studiando, scoprivo man mano che molti grandi personaggi della storia avevano questa malattia o tendenza, come affermava la mia insegnante: Leonardo da Vinci, Michelangelo, Alessandro Magno, ecc..
Non solo: nell'antichità greca e romana il rapporto più sublime e nobile era considerato proprio quello tra due uomini e non quello tra un uomo e una donna, che si accoppiavano spesso solo per procreare.
Accadde poi che qualche mese più tardi, era la primavera del 1976, il collettivo studentesco organizzò un incontro pomeridiano sull'omosessualità all'interno del nostro istituto. Oltre al preside e agli insegnanti, erano presenti esperti e si annunciava anche la presenza di chi avrebbe fornito la propria testimonianza in proposito.
Come molti, anch'io avevo in mente la macchietta tipica dell'omosessuale: una persona effeminata, volutamente provocatoria e anche un po' ridicola e patetica. Mi aspettavo fosse così la persona che avrebbe parlato della sua esperienza.
Con meraviglia invece scoprii che proprio il giovane uomo più bello e più "maschio", quello che tutte le ragazze avevano notato al suo ingresso, quello che pensavamo fosse un medico o uno psicologo appetibile (non aveva la fede!) era una "checca".
Esordì proprio così: "Salve, mi chiamo Mario e sono una checca."
Proseguì con il racconto della sua vita, quello di chi si sente rifiutato in primo luogo dai genitori ovvero da chi dovrebbe amarlo per quello che è e non per quello che vorrebbe che fosse. E poi una vita ai margini, con il terrore e l'angoscia di chi non riesce e non può essere sé stesso. E allora la frequentazione di certi ambienti marginali e squallidi diventa quasi una necessità, come se ci si volesse punire per la propria diversità, per la propria "malattia". Un dramma individuale, prima che un dramma sociale. Soprattutto perché non ci si sente compresi. Soprattutto perché c'è chi si ostina a dire che si può guarire. O che ci si deve tenere, senza ostentare o fingendo, la propria diversità. Come se la diversità fosse una colpa anziché una ricchezza, un'occasione di confronto per sfuggire all'omologazione.
Questo ho imparato in quel pomeriggio del 1976.
Ho imparato che rispettare gli altri significa rispettare la loro libertà. Un bene prezioso che tutti hanno il diritto di esercitare senza ledere la libertà altrui.
(Post già pubblicato il 6 febbraio 2009 sulla piattaforma Splinder e successivamente sul blog "La panchina in cima al monte")

Mauro per sempre

Fino alla fine, continuarono a sperare nella sua guarigione. Ci credevano davvero, forse spinti anche dalla forza e dal coraggio di quella giovane madre. Una vera madre. Capace di piangere e disperarsi, ma non davanti a lui. Perché lui non doveva sapere quanto grave fosse la sua malattia. Lui doveva vivere come tutti i suoi compagni, libero di continuare a fare progetti per il futuro, come tutti i sedicenni fanno.

Sì, i suoi insegnanti credevano davvero che ce l'avrebbe fatta. E quando vennero informati che non sarebbe andata così, attoniti continuarono a mantenere quel segreto terribile. Mauro non doveva sapere. I suoi compagni non dovevano sapere.

Così, quel terribile dolore poté essere rivelato a tutti solo in quell'assolato giorno di giugno, il 20 giugno 2007, quando Mauro se ne andò. Ma non li lasciò soli. Era con tutti coloro che lo avevano amato e non lo avrebbero dimenticato.

Vivo nei loro cuori. Per sempre.


"Non muore chi rimane

vivo nel nostro cuore"


"Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura

che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,

da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,

da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,

non voglio che muoia la mia eredità di gioia,

non bussare al mio petto, sono assente.

Vivi nella mia assenza come in una casa.

E' una casa sì grande l'assenza

che entrerai in essa attraverso i muri

e appenderai i quadri nell'aria.

E' una casa sì trasparente l'assenza

che senza vita io ti vedrò vivere

e se soffri, amor mio, morirò nuovamente."

(Pablo Neruda: "Sonetto XCIV" da "Cento sonetti d'amore - Notte")

mercoledì 6 gennaio 2016

Parliamo?

Adorano parlare, i miei studenti.
E non lo fanno, come affermano i colleghi più maligni, per perdere tempo ed evitare di far lezione o un'interrogazione.
Sono pieni di dubbi e vogliono capire: il senso della vita, dell'amicizia, dell'amore...
"Perché?" chiedono spesso, sperando che io possa dar loro la risposta giusta.
E io, di fronte alle loro domande che io stessa mi pongo e che da sempre l'essere umano si pone, non posso fare altro che ascoltare e lasciarli parlare. Confrontandosi, parlando, hanno l'occasione di scoprire che l'ansia, l'angoscia, i dubbi che ciascuno di loro prova sono gli stessi che ciascuno di noi ha provato e prova.
Ecco perché parlarne ci fa bene.
(Già pubblicato con altro account su altro blog e su altra piattaforma il 16 marzo 2009)

lunedì 4 gennaio 2016

"Se tutti gli sfigati, gli sfigati del mondo..."

"Profe," mi dice ad un tratto uno studente "io sono uno "sfigato!".
Sollevo lo sguardo dalle mie carte e lo guardo negli occhi. E' seduto al primo banco, il suo banco fin dal primo giorno di scuola. E' uno studente di prima, attento, volenteroso, partecipe. Almeno con noi docenti.
Non mi sembra però che abbia legato molto con i compagni.
Durante la ricreazione resta spesso in classe con l'insegnante, non esce dall'aula, come fa invece la maggior parte dei suoi compagni.
E' stato proprio durante l'intervallo che, mentre eravamo rimasti in aula da soli, mi ha detto così: "Profe, sono uno sfigato!"
Gli ho chiesto perché ritenesse di esserlo.
Ha cominciato a spiegarmi che sono i suoi compagni a definirlo così: lui continua a fare la vita di sempre, quella che conduceva alle scuole medie.
Studia, fa i compiti, esce con i suoi amici d'infanzia. Non fuma, non beve il sabato sera, non prende pasticche o cocaina, non va in discoteca.
"Capisce, profe? Sono proprio uno sfigato!".
L'insegnante di italiano che è in me vorrebbe dirgli di adoperare un registro linguistico più formale. Ma non è una situazione formale, questa.
E' il grido di aiuto di chi, mentre sta crescendo, si trova a non accontentarsi più di essere accettato dagli adulti. Ha bisogno dell'accettazione del gruppo dei pari. Di cui, tuttavia, non condivide i valori.
"Sai," gli dico "anch'io sono stata una "sfigata", anche se all'epoca non ci definivano così".
Gli dico che ne conosco e ne ho conosciuti tantissimi di sfigati come lui, che spesso preferiscono nascondersi o adeguarsi a modelli che non condividono.
Ma forse sarebbe meglio che tutti gli "sfigati" del mondo si unissero e si opponessero al conformismo di chi definisce gli altri "sfigati" per non ammettere la propria fragilità, la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza.

(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte" - piattaforma Splinder - il 14 novembre 2008)

domenica 3 gennaio 2016

Per sempre

Giura che lo ama. Che resteranno insieme per sempre. Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.
Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 55.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Già pubblicato sul blog "Sala Docenti")

La 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non

era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca

non avevo nemmeno la patente), era la macchina

della madre del mio amico più caro che, appena ne

 aveva la possibilità, ne usufruiva.

La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a

contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come

sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.

Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo 

giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport 

per assistere alle partite della locale squadra di

basket, effettuare testa-coda magistralmente 

calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non 

c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

sabato 2 gennaio 2016

Capodanno

Il primo giorno dell'anno trascorso in una località del cuore, a passeggiare sotto un sole caldo benché sia gennaio, a leggere un romanzo accattivante, chiacchierando con chi più ci sta a cuore. Che altro si può desiderare?

https://www.youtube.com/watch?v=tO7NfLC-ydI


venerdì 1 gennaio 2016

Diana

Diana morì di parto nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, una decina di giorni prima di Natale.
La ricordava bene, o meglio, ricordava il suo viso splendente fissato nella foto sulla lapide della sua tomba. 
Da bambina, insieme a sua madre, aveva visitato spesso quella tomba. Aveva appreso così, proprio da bambina, che nascere, a volte, significa anche morire, proprio come era accaduto alla creatura che Diana portava in grembo.
Era il 1962. Forse allora si moriva molto più spesso di parto.
Nel 2015, ancora, si moriva di parto, si moriva alla nascita. Forse non così spesso, come accadeva ai tempi di Diana.
Ma ancora accadeva.