Fantasmi, è vero. O, più semplicemente, come si diceva una volta, numeri. Sorprende che nella scuola, soprattutto in certi indirizzi di scuole, non ci si renda conto del dramma che noi tutti, e in primo luogo i più giovani (mi riferisco ai bambini e, soprattutto, agli adolescenti) abbiamo vissuto negli ultimi due anni. La scuola è diventata così lo specchio di un fallimento educativo che già era presente prima della diffusione della pandemia e che con la pandemia ha mostrato tutte le sue criticità: una scuola a volte esageratamente selettiva che non è stata capace di far emergere le potenzialità di ciascuno degli studenti che gli erano stati affidati e, d'altra parte, una scuola fin troppo lassista, ugualmente incapace di trasmettere passione, conoscenza, entusiasmo per la vita e per il sapere. Una scuola con docenti spesso disillusi o trasformati in meri burocrati, impegnati a compilare moduli e a formulare discorsi in cui non ci si crede. Una scuola che a volte, tuttavia, resiste, e lo fa con chi, maestro, insegnante, genitore, dirigente, operatore o collaboratore a qualunque titolo nella scuola, continua a credere che gli studenti abbiano il diritto di avere almeno un maestro, un insegnante che segnerà il percorso della loro vita per sempre, che trasmetterà loro la passione per la conoscenza, per il sapere, per la vita, e che sarà capace di mostrare a ciascuno il proprio talento. Ci sono questi docenti, ci sono queste scuole ed è nel loro entusiasmo e nella loro passione che bisogna riporre le speranze, nonostante tutto.
“Le sale insegnanti non sono tutte uguali: in alcune [...] si parla di tutto, ci si confronta e nascono ottime collaborazioni [...]." #Sala Docenti vuole puntare nuovamente sulla collaborazione, suggerita da Diego, incontrato da studente, oggi docente, e condivisa da Cristina, collega di vecchia data, già preziosa collaboratrice di "Sala Docenti", da Erica, giovane ed entusiasta insegnante, e da Lina, collega ispiratrice di lezioni ed emozioni. Perché solo insieme si cresce davvero.
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sabato 11 giugno 2022
Da numero a fantasma: il dramma della dispersione scolastica
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sabato 26 gennaio 2019
"Essere felici - Il cinema insegna"
“Io penso che la felicità è
quando ti vai a prendere quello che c’è di grande nella vita, anche se devi
superare tantissimi ostacoli e difficoltà. Quindi la felicità è una cosa che se
proprio la vuoi te la devi andare a prendere. A questa cosa ci penso molto
spesso, perché io delle volte mi sento solo e disperato, ma altre volte sento
proprio di essere felice.
E non ho detto allegro,
contento, sereno, ho proprio detto felice!
Di solito però gli altri, le
persone normali, vogliono che stai in difesa, che fai catenaccio, è come se non
ci credono che ci sono le cose grandi da andarsi a prendere in attacco. In
difesa uno soffre meno, ma non so se può davvero essere felice.
[…] Una cosa molto importante
per essere felici sono le persone speciali, una persona speciale è quella che
ti fa capire che in attacco ci sono le cose grandi e che stare in difesa è un
peccato. Oppure sei tu che gli fai capire che in attacco ci sono le cose grandi
e allora sei molto felice di farglielo capire.
Io ci provo ad essere felice,
costi quello che costi. Certo, mica si può essere felici di tutto, però forse
basta esserlo di qualcosa, che poi quel qualcosa illumina tutto il resto… e
siamo salvi.” (Tratto dalla sceneggiatura del film “Banana” di Andrea Jublin. Italia, 2015)
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domenica 9 dicembre 2018
Noi e il '68
In principio era il sogno di una quasi sessantenne, insegnante, che fin da bambina ha imparato a sognare e a credere nella forza dei suoi sogni.
Poi, dopo averlo condiviso con studenti, colleghi, con il Dirigente Scolastico del suo Istituto, quel sogno è diventato un progetto da realizzare consentendo di sviluppare abilità e competenze trattando un argomento, il Sessantotto, che, compreso nei manuali di storia, spesso non viene nemmeno affrontato.
Ricorrendo anche a una delle tecniche (I laboratori di ricerca) della "Didattica delle emozioni" (il format elaborato da Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli), il progetto si propone, attraverso l’organizzazione di un evento da presentare anche all'esterno dell’Istituto, coinvolgendo il territorio, di offrire la possibilità di ripensare e riflettere su un anno, il 1968, che ha cambiato la politica, il costume, la cultura, i comportamenti delle persone: praticamente tutto.
L'evento "Noi e il '68" è un viaggio virtuale da vivere da chi c'era e, soprattutto, da chi non c'era, nel tentativo di restituire alle giovani generazioni la bellezza della passione, dell'immaginazione e del sogno.
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domenica 11 novembre 2018
Sogni cancellati

Ci sono state alcune generazioni di giovani, quelli del '68 o degli anni successivi, che chiedevano per sé "l'impossibile", che difendevano "l'immaginazione al potere", che rovesciarono un sistema in nome di una libertà che esigevano per sé stessi, attaccando tutti i modelli sociali e familiari tradizionali.
In nome di quella libertà, molti, come l'aria, andavano, venivano, amavano, odiavano, mettevano al mondo figli di cui ugualmente rispettavano la libertà, tentando di evitare che provassero frustrazioni, dispiaceri e brutture della vita quotidiana.
Quei figli, cresciuti come Narciso, secondo la definizione di Gustavo Pietropolli Charmet (in "Fragile e spavaldo - Ritratto dell'adolescente di oggi", Editori Laterza, Roma - Bari, 2008) si ritrovavano poi adolescenti, ovvero in un'età per definizione critica e complessa, sprovveduti e dunque fragili in una realtà che non si sentivano, e non si sentono, in grado di affrontare, spaventati e impauriti, dato che nessuno aveva fornito loro gli strumenti adeguati per affrontarla.
Così, i docenti di Lettere delle scuole superiori, se una ventina di anni fa, assegnando come prova di produzione testuale un racconto d'invenzione, si ritrovavano a leggere storie simpatiche, piene di curiosità e di gusto per la vita, con solo qualche eccezione in cui la vicenda narrata si concludeva drammaticamente, attualmente, assegnando lo stesso tipo di prova, si ritrovano a leggere nella stragrande maggioranza dei casi, storie con un finale tragico in cui il/la protagonista, solitamente in età adolescenziale, soccombe suicidandosi, vittima di bullismo e cyberbullismo.
Quasi ci si trova a pensare che molti di quei giovani che volevano l'impossibile e che sognavano per sé un futuro radioso, quello stesso futuro lo hanno rubato ai loro figli, cancellando sogni, curiosità e fiducia nell'avvenire.
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giovedì 27 settembre 2018
Vinti e persi
[...] "Oggi il mio pensiero va a tutti i 'vinti', a quelli che non ce l'hanno fatta, a quelli che stanno ancora cercando un buon motivo per andare avanti; questo mestiere ci fa incontrare tante giovani vite, nell'età più difficile; accompagnarle nel periodo in cui ci sono affidate è un grande privilegio e un grande impegno, riuscire a cogliere i loro segnali, le loro richieste di aiuto spesso non è facile ma provarci si può." [...]
Un vecchio post di Cristina mi ha riempito di malinconia e ha fatto pensare anche a me a "tutti i vinti", quelli che non ci sono più e quelli che stanno ancora fuggendo perdendosi nei mondi ovattati (o presunti tali) dell'alcol e delle droghe... Gli sguardi persi, vuoti, spenti, la paura che diventa aggressività verso gli altri e verso sé stessi, le belle menti (perché, ammettiamolo, spesso sono le anime più nobili e più sensibili che finiscono per perdersi) che improvvisamente bruciano la loro creatività, la loro nobiltà, la loro intelligenza e non sono più loro, sono altri che, improvvisamente, ci ritroviamo davanti e non riconosciamo più.
Quanti ne ho incontrati, quanti ne incontrerò, provando ogni volta la stessa sensazione di impotenza, di incapacità di farmi ascoltare, di urlare "Ribellati! Usa la tua mente e vivi le sensazioni che ti attraversano la mente senza mediarle. Affronta le tue paure e condividile con chi ti è vicino e ti vuole bene, perché c'è chi ti è vicino e ti vuole bene, anche se tu non te ne accorgi...".
(Rielaborazione di un vecchio post già pubblicato il 21 novembre 2007 sulla piattaforma Splinder)
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mercoledì 12 settembre 2018
"La scuola è sacra"
"Sta scherzando?!?!?!?!" mi sono sentita dire da uno studente di quarta quando, per avviare la mia lezione di pianificazione e condivisione del nuovo anno scolastico, ho scritto sulla lavagna, occupandola pienamente, questa frase, usando le lettere maiuscole e chiedendo agli studenti di riportarla sul loro quaderno degli appunti.
Non stavo scherzando, non sto scherzando. La scuola è sacra. Non lo dico io, lo ha detto, tra gli altri, anche don Lorenzo Milani quando affermava:
"La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene". (Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pag.11).
"La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene". (Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pag.11).
E' un luogo sacro, la scuola, perché è l'Istituzione nella quale si trasmette il sapere, quel sapere che non è mera conoscenza, si badi bene, ma è anche pratica ed esercizio di abilità e competenze.
A scuola si imparano i saperi, si esercitano i saperi, si cambia mentalità ed atteggiamento grazie all'interiorizzazione dei saperi.
Questo significa affermare che "la scuola è sacra".
E' così. Dovrebbe essere così.
Dovrebbe. Non è sempre così.
C'è chi, studenti, genitori, docenti stessi, a volte anche dirigenti, considera la scuola un parcheggio, un circolo ricreativo, un centro sociale, un ufficio postale, un luogo dove incontrare persone su cui scaricare la propria aggressività, la propria frustrazione, la propria miseria intellettuale, la propria insofferenza, il proprio disagio interiore.
La scuola è diventata sempre più un luogo sentito inutile, superato, incerottato, inadeguato.
Non più istituzione verso cui è dovuto rispetto, da parte di tutti, anche di chi a scuola non va più da un pezzo e non ha figli in età scolare.
Un Paese che non investe in Sapere, che non investe sulla Scuola, è destinato a fallire.
E' quanto sta accadendo al nostro misero e disgraziato Paese, in cui sembra si sia perso il senso del rispetto, del decoro, dell'apprezzamento verso chi assume nei confronti di fatti e persone un atteggiamento critico, tipico di chi ha imparato a non emettere giudizi senza conoscere ciò di cui sta parlando, di chi ha imparato a verificare, confrontare, ricercare personalmente, avendone gli strumenti, altre verità, consapevole che non esista un'unica verità, un'unica soluzione, un'unica posizione valida per tutti.
L'omologazione non è un valore fine a se stesso. Il denaro non è un valore fine a se stesso. Ma in quanti, ancora, se ne ricordano?
A scuola si imparano i saperi, si esercitano i saperi, si cambia mentalità ed atteggiamento grazie all'interiorizzazione dei saperi.
Questo significa affermare che "la scuola è sacra".
E' così. Dovrebbe essere così.
Dovrebbe. Non è sempre così.
C'è chi, studenti, genitori, docenti stessi, a volte anche dirigenti, considera la scuola un parcheggio, un circolo ricreativo, un centro sociale, un ufficio postale, un luogo dove incontrare persone su cui scaricare la propria aggressività, la propria frustrazione, la propria miseria intellettuale, la propria insofferenza, il proprio disagio interiore.
La scuola è diventata sempre più un luogo sentito inutile, superato, incerottato, inadeguato.
Non più istituzione verso cui è dovuto rispetto, da parte di tutti, anche di chi a scuola non va più da un pezzo e non ha figli in età scolare.
Un Paese che non investe in Sapere, che non investe sulla Scuola, è destinato a fallire.
E' quanto sta accadendo al nostro misero e disgraziato Paese, in cui sembra si sia perso il senso del rispetto, del decoro, dell'apprezzamento verso chi assume nei confronti di fatti e persone un atteggiamento critico, tipico di chi ha imparato a non emettere giudizi senza conoscere ciò di cui sta parlando, di chi ha imparato a verificare, confrontare, ricercare personalmente, avendone gli strumenti, altre verità, consapevole che non esista un'unica verità, un'unica soluzione, un'unica posizione valida per tutti.
L'omologazione non è un valore fine a se stesso. Il denaro non è un valore fine a se stesso. Ma in quanti, ancora, se ne ricordano?
(Già pubblicato il 18 settembre 2011 su altra piattaforma)
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mercoledì 25 luglio 2018
Ripartire dall'essenziale
"Mi domando: [...] (i miei figli) sapranno che fare quando si troveranno al buio? Capiranno da dove può arrivare la luce della salvezza, da quale parte guardare? Ecco quello che dovremmo chiederci, noi genitori: se il nostro tempo sta lasciando loro qualcosa, se stiamo trasmettendo un patrimonio morale. Per riconquistare i nostri figli è da qui che dobbiamo ripartire: dall'essenziale." (Antonio Polito: "Riprendiamoci i nostri figli - La solitudine dei padri e la generazione senza eredità", Marsilio - Nodi, Venezia, 2017, Pagina 173)
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domenica 22 luglio 2018
L'ultimo baluardo
Sempre più spesso, psicologi e pedagogisti invitano la scuola a resistere come ultimo baluardo contro una società sempre più sfaccettata che si nutre di false illusioni, di arroganza, di ignoranza, di certezze assolute mirate a raccogliere il consenso di chi, sempre meno, è abituato a pensare.
E la scuola degli insegnanti che nella scuola credono davvero cerca di resistere, nonostante tutto, incoraggiando gli studenti a discutere, a pensare, ad ascoltare, a non dar mai nulla per scontato, a non credere a tutto ciò che viene detto prima di averlo analizzato, confrontato, approfondito.
Tocca alla scuola il compito di resistere, nonostante tutto, anche valorizzando attraverso una didattica delle emozioni, l'attività in classe.
Contro l'analfabetismo emotivo, Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli con il format Didattica delle emozioni propongono per la scuola una serie di obiettivi:
- una scuola che, prima di insegnare, educhi
- prima di
informare, formi
- che, prima di integrare, interagisca
- che, prima di diventare tecnologica, si apra alla
modernità
- che, prima di accogliere e rispettare, si faccia rispettare
- che, prima di cadere nella trappola del buonismo,
sappia mettere regole, limiti e confini
- che, prima di trasformarsi in un contenitore sterile,
sia luogo di studio, impegno e passioni
- che, prima di essere derubata di ogni risorsa, sia
spazio sacro e da proteggere
- che, prima di
invitarli a ripetere la lezione, aiuti i giovani a narrarsi
- che, ancora
prima delle lettere e dei numeri, recuperi codici di linguaggio emozionale.
Soltanto così,
unendo il passato al futuro, la scuola può dare senso e avere senso.
(Citazioni tratte dal testo di Ulisse Mariani e Rosanna Schiralli: Intelligenza emotiva a scuola - Percorso formativo per l'intervento con gli alunni, Erickson, Trento, 2012, pagine 129 - 130)
Contro
l’analfabetismo emotivo:
la che, prima di insegnare, educhi
prima di informare, formi
che, prima di integrare, interagisca
che, prima di diventare tecnologica,
si apra alla modernità
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venerdì 29 giugno 2018
"Il Monti" e i buoni maestri
La mia insegnante di italiano del liceo mi chiamava così: "il Monti".
"Chiediamo al "Monti"" diceva, rivolgendosi ironicamente a me.
Sosteneva che fossi una voltagabbana, pronta a salire sempre sul carro del vincitore, proprio come l'illustre letterato che lei detestava.
Non ero e non sono una voltagabbana. E quel soprannome mi indignava molto.
Rivendicavo e rivendico il diritto di cambiare opinione e pretendo di non essere condizionata dal gruppo di appartenenza. Rivendicavo e rivendico il diritto di essere un "cane sciolto".
Fanno paura i cani sciolti. Liberi, senza un padrone, chi può controllarne le gesta dato che non sono addomesticati? Meglio chiamare subito l'accalappiacani.
O umiliarli, insultarli, degradarli.
Come faceva la mia insegnante maonista (e forse anche un po' stalinista).
Aveva uno sguardo imperscrutabile. Noi studenti, però, durante le interrogazioni, quando ci guardava avevamo l'impressione che pensasse: "Questo qui è proprio scemo!".
Non sono mai riuscita a capire che cosa realmente pensasse di me finchè un giorno, all'inizio del terzo liceo, restituendomi il compito su Manzoni in cui mi aveva dato "cinque e mezzo", mi chiese:
"Che cosa è successo? Ti ho trovato davvero poco ispirata! Non è il tuo solito tema, non è la tua scrittura".
Le risposi che Manzoni non mi piaceva per niente.
Quel voto, in effetti, era il voto più basso che lei avesse mai assegnato a un mio tema. Di solito prendevo tra il sei e il sette. Mai di più. Oltre il sette e mezzo o l'otto (appannaggio esclusivo della più brava della classe) lei non andava mai.
Quel giorno pensai che, in fondo, le piaceva come scrivevo.
La sorpresa piacevole arrivò solo agli esami di maturità. Mi guardò fiera mentre il presidente della commissione, un insegnante di italiano, si complimentò con me per aver svolto uno dei migliori temi di letteratura tra tutti gli studenti dell'istituto.
Era il 14 luglio del 1980.
Da allora non ho più visto la mia insegnante del liceo.
Mi ha "fatto tribolare", come sono soliti dire i miei attuali studenti, ma io le sono davvero grata. Mi ha insegnato tanto. L'ho apprezzata, stimata, adorata.
Ancora, nei primi anni di insegnamento, soprattutto quando mi erano state assegnate delle classi difficili, sognavo spesso di entrare in classe e scoprire di essere ancora al liceo e di dover essere interrogata da lei, dalla mia insegnante di italiano.
Che mi aveva insegnato ad essere forte, proprio con la sua ironia. Mi aveva insegnato a credere e a difendere le mie opinioni. A costo di essere ridicolizzata.
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lunedì 25 giugno 2018
Allo stato brado
Sempre più frequentemente capita di vedere bambini dall'età variabile tra i due e i dieci anni che al ritiro bagagli in aeroporto si piazzano davanti al nastro trasportatore costituendo un pericolo per sé e un disturbo per gli altri dato che il bagaglio, i bambini, non riescono a ritirarlo rischiando contemporaneamente di prendere in testa quello del passeggero che ritira il suo e non riesce a schivare il bimbo piazzato laddove non dovrebbe essere. In quest'ultimo malaugurato caso, nemmeno così improbabile, il genitore del bimbo colpito non fa che lamentarsi. "Che modi!", ripete, dando per scontato che il figlio, urlante, possa fare ciò che vuole, in sua presenza e anche in sua assenza.
Non si pensi ch'io non sia consapevole di quanto sia difficile educare.
E' difficile, per esempio, chiedere a un bambino di due/tre anni di restare seduto e composto a tavola per tutta la durata del pasto senza pretendere di avere con sé giochini vari, di alzarsi ripetutamente, di gattonare, benché abbia già imparato a camminare da un po', sotto il tavolo ai piedi degli astanti.
Certo che è difficile!
Lo è al pari di chiedere a un tredicenne/quattordicenne di restare seduto al suo banco nel momento in cui gli è richiesto, senza girare per l'aula come un uccellino che si rifiuta di rientrare in gabbia.
Per l'adolescente riottoso, quando va bene, i primi tre mesi di scuola superiore possono bastare per trasmettergli l'idea che, sì, a scuola ci sono momenti in cui bisogna stare seduti.
Certo che è difficile!
Lo è al pari di chiedere a un tredicenne/quattordicenne di restare seduto al suo banco nel momento in cui gli è richiesto, senza girare per l'aula come un uccellino che si rifiuta di rientrare in gabbia.
Per l'adolescente riottoso, quando va bene, i primi tre mesi di scuola superiore possono bastare per trasmettergli l'idea che, sì, a scuola ci sono momenti in cui bisogna stare seduti.
Mi si dirà che sono altri tempi da quando frequentavo la scuola seduta dalla parte opposta alla cattedra.
Mi si dirà che i bambini, che gli adolescenti sono cambiati.
Non è così. Non sono cambiati i bambini, non sono cambiati gli adolescenti.
Come sostiene Daniele Novara, uno dei più noti pedagogisti italiani (http://osservatorio-cyberbullismo.blogautore.repubblica.it/2017/11/20/non-e-colpa-dei-bambini-bisogna-tornare-ad-educare-intervista-a-daniele-novara/), sono cambiati gli adulti.
Quegli adulti che, ritenendo di fare cosa buona e giusta, lasciano i bambini e gli adolescenti allo stato brado in nome di una libertà presunta da concedere a sé stessi e ai più giovani che vengono loro affidati.
Così quella libertà diventa licenza, diventa irresponsabilità, diventa incapacità di gestire sé stessi e gli altri.
Tutti allo stato brado, con buona pace delle necessarie regole di convivenza sociale e civile.
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lunedì 7 maggio 2018
Emozionarsi, ancora. Anche a scuola.
“Un po’ di coraggio e
tanta passione” : sono questi i due ingredienti richiesti per iniziare un
programma di Didattica delle emozioni®, il format promosso da Ulisse Mariani e
Rosanna Schiralli per sviluppare l’intelligenza emotiva e favorire il benessere
a scuola.
Affrontare e gestire le
proprie emozioni, da parte soprattutto delle
giovani generazioni che si ritrovano a vivere il vuoto della mancanza di
desiderio, soffocate da una quantità di beni materiali e di relazioni virtuali
che non possono appagare i più autentici bisogni di vicinanza, intimità,
conferma, riconoscimento e sicurezza dell’essere umano, appare, in un’epoca
come l’attuale, una vera e propria necessità al fine di affrontare e/o
prevenire situazioni di scarsa attenzione e motivazione, apatia, aggressività
che sempre più manifestano il malessere e il disagio degli alunni.
La Didattica delle
emozioni® consiste nell’introdurre nella consueta azione didattica una serie di
procedure, tecniche e strategie atte a sviluppare negli alunni, fin dalla
scuola dell’infanzia, la capacità di individuare, gestire e modulare nel modo
più opportuno le proprie emozioni.
L’applicazione del format
non costituisce un aggravio di impegno per il docente né interferisce con la
normale attività didattica; favorisce invece, come sperimentazioni e
misurazioni successive su campioni di alunni molto vasti hanno dimostrato, lo
sviluppo delle competenze emotive degli alunni, tanto più significative quanto
minore è l’età degli alunni stessi.
Rilevante risulta il
coinvolgimento del Dirigente Scolastico, dei docenti dell’Istituto e dei
genitori con cui va condivisa la validità del format, al fine di una diffusione
dello stesso.
L’applicazione delle
tecniche proposte dal format ha trovato sempre, laddove sperimentato, una buona accoglienza tra gli alunni che
hanno avuto l’opportunità di esprimere sé stessi e il proprio mondo interiore, sentendosi
ascoltati e protagonisti. Proprio per questo è importante che una volta
intrapreso, il percorso venga portato avanti almeno fino alla fine dell’anno
scolastico per evitare di deludere le aspettative degli alunni stessi.
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sabato 27 maggio 2017
Sogni rubati
Ci sono state alcune generazioni di giovani, quelli del '68 o degli anni successivi, che chiedevano per sé "l'impossibile", che difendevano "l'immaginazione al potere", che rovesciarono un sistema in nome di una libertà che esigevano per sé stessi, attaccando tutti i modelli sociali e familiari tradizionali.
In nome di quella libertà, molti, come l'aria, andavano, venivano, amavano, odiavano, mettevano al mondo figli di cui ugualmente rispettavano la libertà, tentanto di evitare che provassero frustrazioni, dispiaceri e brutture della vita quotidiana.
Quei figli, cresciuti come Narciso, secondo la definizione di Gustavo Pietropolli Charmet (in "Fragile e spavaldo - Ritratto dell'adolescente di oggi", Editori Laterza, Roma - Bari, 2008) si ritrovavano poi adolescenti, ovvero in un'età per definizione critica e complessa, sprovveduti e dunque fragili in una realtà che non si sentivano, e non si sentono, in grado di affrontare, spaventati e impauriti, dato che nessuno aveva fornito loro gli strumenti adeguati per affrontarla.
Così, i docenti di Lettere delle scuole superiori, se una ventina di anni fa, assegnando come prova di produzione testuale un racconto d'invenzione, si ritrovavano a leggere storie simpatiche, piene di curiosità e di gusto per la vita, con solo qualche eccezione in cui la vicenda narrata si concludeva drammaticamente, attualmente, assegnando lo stesso tipo di prova, si ritrovano a leggere nella stragrande maggioranza dei casi, storie con un finale tragico in cui il/la protagonista, solitamente in età adolescenziale, soccombe suicidandosi, vittima di bullismo e cyberbullismo.
Quasi ci si trova a pensare che chi voleva per sé un futuro radioso, quei giovani, diventati adulti, che sognavano l'impossibile, lo hanno rubato ai loro figli, strappando sogni, curiosità e fiducia nell'avvenire.
P.S. Questo post è dedicato a tutti i miei studenti, anche del passato, in particolare a chi so che passa di qui per leggere ciò che scrivo. Grazie, di cuore!
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sabato 13 maggio 2017
Le responsabilità degli adulti
Il Convegno Internazionale #Supereroi fragili.2017, svoltosi a Rimini il 5 e il 6 Maggio scorsi, ha evidenziato che le difficoltà degli adolescenti delle ultime generazioni sono dovute alle scelte educative adottate dagli adulti negli ultimi vent'anni.
Proprio quelle scelte che, in post pubblicato il 27 settembre 2007 e, successivamente, il 1° ottobre 2008, sul blog "Sala docenti", erano state da me stigmatizzate.
"Le responsabilità degli adulti"
Nei
Paesi occidentali, dalla metà degli anni Sessanta, per circa una decina d'anni,
i giovani rivendicarono per sé il diritto alla libertà e alla felicità.
Pensavano che potesse essere possibile costruire un mondo migliore, libero
dalle ipocrisie del mondo adulto tipiche della società borghese, parlavano di
fantasia al potere, scandivano slogan del tipo "Siamo realisti, vogliamo
l'impossibile", attaccavano duramente quelli che erano ritenuti i pilastri
della società borghese: lo Stato, la famiglia, la scuola.
Nel
frattempo crescevano, quei giovani, e in nome della libertà evocata per sé
mettevano su casa (o case) e famiglia (famiglie), mettevano al mondo figli che
venivano lasciati liberi di esprimere la propria creatività, fuori dalla
costrizione delle regole autoritarie del "sistema". E poi andavano,
venivano, liberi per il mondo perché la libertà è un bene primario. E anche la
scuola doveva essere libera: basta con il sapere rigido e codificato, basta con
la grammatica, meglio un corso di animismo o di cucina orientale.
Però...
Il
risultato, credo, sia sotto gli occhi di tutti.
Mi
limiterò ad effettuare un'analisi circoscritta a quello che quotidianamente,
come insegnante, vedo negli occhi dei miei studenti, senza moralismi e
pregiudizi.
I
nostri ragazzi sono soli, disorientati, disillusi.
Hanno
quindici anni e molti di loro ammettono di non avere né sogni, né speranze.
"Non
è più come ai suoi tempi!", ripetono spesso. "Lo vede, vanno avanti
solo i furbi!".
E
ancora: "Il vero amore non esiste", "Tutti vogliono
fregarti", "Non so cosa farò da grande e sinceramente non mi
interessa".
Appaiono
forti, tosti, ma sono fragilissimi, al punto che se trovano qualcuno disposti
ad ascoltarli gli rivelano tutti i loro dubbi, le loro paure, il loro senso di
inadeguatezza.
A
volte sono chiamati persino ad occuparsi delle vicende amorose di padri
farfalloni e di madri nevrotiche (o viceversa).
Dunque,
se sono così, è colpa loro o colpa di noi adulti che in nome della nostra
libertà abbiamo privato i nostri figli della libertà di crescere sereni ed
emotivamente equilibrati?
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sabato 16 gennaio 2016
Credere
CREDO: IL MONOLOGO DI FRECCIA
(TRATTO DAL FILM “RADIOFRECCIA” DI LUCIANO LIGABUE –
1999)
“Oggi ho avuto una discussione con un amico. Lui è uno di quelli bravi. Bravi a credere a quello in cui gli dicono di credere. Lui dice che se uno non crede in certe cose non crede in niente. Be’, non è vero. Anch’io credo. Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che vuole l'affitto ogni primo del mese… Credo che ognuno di noi si meriterebbe un padre e una madre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un'Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa.
Credo che non sia tutto qua, però prima di credere in qualcos'altro bisogna fare i conti con quello che c'è qua.
E allora mi sa che crederò prima o poi in qualche Dio.
Credo che, se mai avrò una famiglia, sarà dura tirare avanti con trecento mila
al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto, difficilmente cambieranno le cose.
Credo che c'ho un buco grosso dentro, ma credo che il rock and roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli amici… ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso… e credo che da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.
Credo che per credere, certi momenti, ti serva molta energia.”
(Antonio Leotti - Luciano Ligabue: “Radiofreccia – La sceneggiatura, le foto, e altro ancora”, Fandango Libri, Roma, 1999, pgg. 57-58)
Luciano Ligabue (Tratto da Radiofreccia – colonna sonora originale - 1998)
HO
PERSO LE PAROLE
HO PERSO LE PAROLE
EPPURE CE LE AVEVO QUA UN ATTIMO FA
DOVEVO DIRE COSE
COSE CHE SAI
CHE TI DOVEVO
CHE TI DOVREI
HO PERSO LE PAROLE
PUÒ DARSI CHE ABBIA PERSO SOLO LE MIE BUGIE
SI SON NASCOSTE BENE
FORSE PERÒ
SEMPLICEMENTE
NON ERAN MIE
CREDI
CREDICI UN PO’
METTI INSIEME UN CUORE E PROVA A SENTIRE E DOPO
CREDI
CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DAVVERO
SEI BELLA CHE FAI MALE
SEI BELLA CHE SI BALLA SOLO COME VUOI TU
NON SERVONO PAROLE
SO CHE LO SAI
LE MIE PAROLE NON SERVON PIÙ
MA HO PERSO LE PAROLE
E VORREI CHE TI BASTASSE SOLO QUELLO CHE HO
IO MI FARÒ CAPIRE
ANCHE DA TE
SE ASCOLTI BENE SE ASCOLTI UN PO’
CREDI
CREDICI UN PO’ SEI SU RADIOFRECCIA GUARDATI IN FACCIA E
DOPO
CREDI
CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DAVVERO
HO PERSO LE PAROLE
OPPURE SONO LORO CHE PERDONO ME
IO SO CHE DOVREI DIRE
COSE CHE SAI
CHE TI DOVEVO, CHE TI DOVREI
MA HO PERSO LE PAROLE
CHE BELLO SE BASTASSE SOLO QUELLO CHE HO
MI POSSO FAR CAPIRE ANCHE DA TE SE ASCOLTI BENE SE ASCOLTI
UN PO’
CREDI CREDICI UN PO’ METTI INSIEME UN CUORE E PROVA A
SENTIRE E DOPO
CREDI CREDICI UN PO’ DI PIÙ DI PIÙ
DI PIÙ DAVVERO
CREDI CREDICI UN PO’ SEI SU RADIO FRECCIA GUARDATI IN
FACCIA E DOPO CREDI
https://www.youtube.com/watch?v=pLXBoRkPM7E
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mercoledì 13 gennaio 2016
A scuola di felicità
Si può imparare la felicità? C'è chi sostiene che sì, che attraverso il Coaching ci si possa allenare alla felicità.
L'idea è quella di individuare proprio attraverso la tecnica del Coaching il talento o i talenti di cui ciascuno di noi è naturalmente dotato. Successivamente il proprio talento dovrà essere sfruttato per poter arrivare a fare ciò che davvero ci piace.
Se è vero, infatti, che siamo felici quando facciamo ciò che ci piace, il segreto della felicità dovrebbe essere nella costruzione di una vita di relazioni in cui ciascuno possa esprimere sé stesso.
Occorrerà naturalmente essere in grado di fare i conti con il proprio passato e ciò potrà essere tanto più complicato quanto più avremo impostato false relazioni con chi ci circonda.
Nei rapporti umani il rischio è infatti quello di voler compiacere coloro cui si vuole bene (i genitori, gli amici, il partner, etc.) scegliendo non ciò che si desidera davvero per sè stessi ma ciò che altri giudicano più adatto a noi.
La costruzione della propria vita è difficile e complicata ma occorre far sì che tale difficoltà non impedisca di guardarsi dentro a fondo per poter poi determinare le proprie scelte individuando gli obiettivi del proprio benessere in ciò che noi stessi potremmo realizzare.
Ciò significa innanzi tutto imparare a star bene con sé stessi e non affidare la propria felicità a qualcosa/qualcuno esterno da noi.
Gli altri potranno certamente arricchire la nostra vita ma se non saremmo noi stessi gli unici da cui dipendere per realizzare i nostri sogni non potremo mai essere felici.
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martedì 12 gennaio 2016
Cose utili e inutili
Io ripartirei da qui. Dall'affermazione di Don Lorenzo Milani "La scuola è quel luogo dove si insegnano cose utili, quelle cose che il mondo non insegna, sennò non va bene." riportata in "Una lezione alla scuola di Barbiana" (Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pg.11).
E' indubbio che quelle che cinquant'anni fa Don Milani riteneva "cose inutili" attualmente possano essere considerate utilissime, o viceversa.
In generale, riprendendo la citazione del priore di Barbiana, devono considerarsi cose utili "quelle cose che il mondo non insegna".
Attualmente sono tantissime le cose che il mondo non insegna: il rispetto per sè stessi e per gli altri, la passione, la curiosità vera, l'arte di saper aspettare, la bellezza, il sacrificio.
A scuola ci si può (anzi, a mio avviso si deve) dedicare al ballo, alla musica, al teatro etc., a patto che non lo si faccia seguendo mode e fenomeni culturali di basso profilo (che potrebbero al limite essere analizzati per la loro capacità di attrarre le masse).
La scuola che auspico è quella che dia a tutti la possibilità di crescere, di scoprire sé stessi e le proprie potenzialità, di formarsi come persona nel senso più completo del termine, imparando a non farsi schiacciare dalle mode, dalla massa che tutto omologa e appiattisce.
(Vecchio post, già pubblicato sulla piattaforma Splinder da Critolao il 17 giugno 2008 ma oggi come allora attualissimo)
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mercoledì 6 gennaio 2016
Parliamo?
Adorano parlare, i miei studenti.
E non lo fanno, come affermano i colleghi più maligni, per perdere tempo ed evitare di far lezione o un'interrogazione.
Sono pieni di dubbi e vogliono capire: il senso della vita, dell'amicizia, dell'amore...
"Perché?" chiedono spesso, sperando che io possa dar loro la risposta giusta.
E io, di fronte alle loro domande che io stessa mi pongo e che da sempre l'essere umano si pone, non posso fare altro che ascoltare e lasciarli parlare. Confrontandosi, parlando, hanno l'occasione di scoprire che l'ansia, l'angoscia, i dubbi che ciascuno di loro prova sono gli stessi che ciascuno di noi ha provato e prova.
Ecco perché parlarne ci fa bene.
(Già pubblicato con altro account su altro blog e su altra piattaforma il 16 marzo 2009)
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lunedì 4 gennaio 2016
"Se tutti gli sfigati, gli sfigati del mondo..."
"Profe," mi dice ad un tratto uno studente "io sono uno "sfigato!".
Sollevo lo sguardo dalle mie carte e lo guardo negli occhi. E' seduto al primo banco, il suo banco fin dal primo giorno di scuola. E' uno studente di prima, attento, volenteroso, partecipe. Almeno con noi docenti.
Non mi sembra però che abbia legato molto con i compagni.
Durante la ricreazione resta spesso in classe con l'insegnante, non esce dall'aula, come fa invece la maggior parte dei suoi compagni.
E' stato proprio durante l'intervallo che, mentre eravamo rimasti in aula da soli, mi ha detto così: "Profe, sono uno sfigato!"
Gli ho chiesto perché ritenesse di esserlo.
Ha cominciato a spiegarmi che sono i suoi compagni a definirlo così: lui continua a fare la vita di sempre, quella che conduceva alle scuole medie.
Studia, fa i compiti, esce con i suoi amici d'infanzia. Non fuma, non beve il sabato sera, non prende pasticche o cocaina, non va in discoteca.
"Capisce, profe? Sono proprio uno sfigato!".
L'insegnante di italiano che è in me vorrebbe dirgli di adoperare un registro linguistico più formale. Ma non è una situazione formale, questa.
E' il grido di aiuto di chi, mentre sta crescendo, si trova a non accontentarsi più di essere accettato dagli adulti. Ha bisogno dell'accettazione del gruppo dei pari. Di cui, tuttavia, non condivide i valori.
"Sai," gli dico "anch'io sono stata una "sfigata", anche se all'epoca non ci definivano così".
Gli dico che ne conosco e ne ho conosciuti tantissimi di sfigati come lui, che spesso preferiscono nascondersi o adeguarsi a modelli che non condividono.
Ma forse sarebbe meglio che tutti gli "sfigati" del mondo si unissero e si opponessero al conformismo di chi definisce gli altri "sfigati" per non ammettere la propria fragilità, la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza.
Ma forse sarebbe meglio che tutti gli "sfigati" del mondo si unissero e si opponessero al conformismo di chi definisce gli altri "sfigati" per non ammettere la propria fragilità, la propria debolezza, il proprio senso di inadeguatezza.
(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte" - piattaforma Splinder - il 14 novembre 2008)
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