giovedì 11 marzo 2021

10 marzo

 E ora, dopo tutti gli slogan, e i fiori, spesso mimose, e le belle parole, ci aspetteremmo, in ordine sparso:

- nidi e scuole dell'infanzia pubblici e di quartiere, se possibile aperti 24 ore su 24 (se lo fanno i supermercati, possono farlo anche gli asili nido, anche perché potrebbe essere che i genitori di quei bambini lavorino proprio nei supermercati aperti 24 ore su 24)
-fasciatoi anche nei bagni per signori, come accade nei Paesi dell'Europa del Nord
- un welfare che non si limiti a riconoscere un bonus una tantum a chi ha dei figli ma che consenta a tutti, uomini e donne, di scegliere serenamente di diventare genitori potendo assicurare cibo e beni primari per sé e per i propri figli
- politiche sociali e del lavoro che non costringano le donne a dover scegliere tra lavoro e maternità, tra lavoro e cura di familiari
- il riconoscimento del valore e dei talenti di ciascuno, indipendentemente dal proprio genere
- il superamento di una cultura sessista, strisciante e dominante.
Ok. Per oggi ho finito. ⏰

lunedì 1 febbraio 2021

Morire di parto

Quando nel 1977 questa canzone cominciò a circolare sulle radio libere che trasmettevano canzoni melodiche, non potei far a meno di esserne colpita. 

Nel 1977  morire di parto in Italia non era un'eventualità così remota, sebbene accadesse sempre meno frequentemente rispetto ai primissimi anni del decennio precedente (1960/1961), quando l'ospedalizzazione del parto non era ancora così diffusa.

Fin da bambina io avevo imparato che di parto si poteva morire e che potevano morire sia la madre sia il neonato. Entrambi. O uno dei due. 

Nella mia famiglia la cugina di mia madre, a 22 anni, era morta di parto e con lei era morto il suo bambino. Il sorriso di quella giovane donna, di cui mi restava il ricordo nella foto che la madre di lei teneva in sala e che era la stessa che c'era sulla sua tomba, mi turbava ogni volta che mi capitava di guardarlo.

Ugualmente mi turbava e mi imbarazzava, perché mi sembrava di essere una privilegiata rispetto a lei, la vicenda di una bambina che abitava nel mio condominio e che era mia compagna di giochi: la sua mamma era morta nel darla alla luce e lei viveva con la nonna materna.

Sono le storie che viviamo che spesso, anche se non ce ne accorgiamo. ci segnano per sempre, indirizzando e guidando poi le nostre emozioni, le nostre passioni, le nostre attenzioni e le nostre curiosità, i nostri gusti, le nostre scelte di vita.


"Finalmente s’apre quella porta accanto
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Lo so, non me lo dica, ho già capito
Il bimbo è nato, ma il sogno è finito
Odio mio figlio
Dio, che mi succede
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo
In cambio non lo accetto, devo odiarlo"



https://www.youtube.com/watch?v=UKugS2PGr3o&feature=share&fbclid=IwAR021YOUDqnM848s8bhVR3rZaP_De5lFRLvBisa2ATPBISX8PPdDH12TAsk


Filippo Schisano
Odio mio figlio
Sono lì in corsia ad aspettare
Che diventi padre, sai che gioia
A te che soffri per amore mio
Ma non faccio altro che pensare a te
Nella gioia e nel dolore sarà sempre mio
Ho comprato delle rose stamattina Che bellezza se verrà un bambino
Mi fissa lì il dottore e aspetta un pianto
Non potrò scordarmi mai di Dio Finalmente s’apre quella porta accanto
Dio, che mi succede
Lo so, non me lo dica, ho già capito Il bimbo è nato, ma il sogno è finito Odio mio figlio
In cambio non lo accetto, devo odiarlo
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
Ho rubato un giglio alla Madonna
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto e devo odiarlo Anche se oramai non vale niente
Poi guardo quegli occhietti da bambino
Ma non ho il coraggio di donarlo a te Non mi ringrazieresti coi tuoi baci Odo un vagito gemere dal nulla Mi getto a capofitto nella culla Che chiedono perdono al suo papà Odio mio figlio
Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo
Dio che mi succede Lo odio con tutta la mia anima e lo vedo Lo so che non ha colpa, ma non posso amarlo In cambio non lo accetto, devo odiarlo Odio mio figlio Dio che mi succede
L’ho solo perdonato, ma mi bagno il viso
Quel bimbo fuori guarda e mi fa già un sorriso

venerdì 6 novembre 2020

La scuola non si ferma


 La scuola non si ferma. Non si è mai fermata, da quando, tra fine febbraio e l'inizio di marzo, i docenti, magari ultracinquantenni, hanno reimparato il loro mestiere, sperimentando modalità di insegnamento cui mai avrebbero pensato di approdare. Improvvisamente G-Suite, Classroom, Drive, Moduli, Meet, sono diventati familiari anche a coloro che, in precedenza, non sapevano nemmeno da dove si accendesse un computer.

La scuola non si ferma, non si è mai fermata, checché ne pensassero coloro che hanno accusato la classe docente di aver usufruito di un lunghissimo periodo di vacanza a partire dal marzo scorso. C'è chi, tra gli insegnanti, bisogna ammetterlo, ha davvero goduto di un lungo periodo di vacanza: lo sanno i loro studenti, le famiglie, ma anche i colleghi e i dirigenti. Ma è ingiusto pensare che sia stato per tutti, per molti, così. La scuola non ha chiuso e non chiuderà. Per questo, adesso, andare a scuola, per i docenti, per continuare a far lezione in un'aula vuota, è dare un segnale: quello di chi esercita un mestiere essenziale, che si pone al servizio delle menti più giovani al fine di farle crescere, seppur in una condizione di difficoltà. Una sfida che, da sempre, i docenti sono disposti ad accettare.

domenica 25 ottobre 2020

"La social catena"

 "Il 6 agosto 2020 Tizio parte per le vacanze. Il 12 agosto contrae il Covid19 da un asintomatico, ignaro di esserne affetto. Tizio, di ritorno dalle vacanze il 14 agosto 2020, non effettua il tampone. E' asintomatico; il 20 agosto 2020 incontra Caio e Sempronio cui trasmette il virus. Caio e Sempronio restano asintomatici. Caio, il 26 agosto, partecipa a una festa di compleanno e trasmette il virus a tre persone. Sempronio, il 29 agosto, partecipa a un matrimonio e trasmette il virus a dieci persone. Una delle persone incontrate da Caio, il 3 settembre contagia tre persone, compresa sua nonna che ha 75 anni. Il 4 settembre comincia ad avere febbre e malesseri vari; non è grave. Sua nonna, invece, il 10 settembre, viene ricoverata in terapia intensiva. Nel frattempo ...".

La storia continua così. Per coloro che si fanno beffe del numero dei contagiati, comunicato quotidianamente, ritenendo che contare gli asintomatici non serva a nulla, suggerirei di riguardare il numero dei contagiati del 25 settembre e quello del 25 ottobre 2020. Al momento le strutture sanitarie reggono ma potrebbe succedere che, in breve tempo, non reggano più. E non mi si venga a dire che occorre salvare l'economia. La storia della diffusione delle epidemie insegna che l'economia non può non risentirne. E allora, quello che davvero occorre fare, è stringersi in una "social catena", per contrastare grazie alla solidarietà e al senso di comunità, questa prova che tutti noi, indistintamente, siamo chiamati ad affrontare.




"Così fatti pensieri                                145
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contro l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte                                150
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo                            155
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede."
(Giacomo Leopardi: "La ginestra, o il fiore del deserto", versi 145 - 157)



sabato 28 dicembre 2019

Il pianto di Rachele e la strage degli innocenti: le responsabilità degli adulti

Muoiono. Cadono sulle strade, impregnate del loro sangue, spesso nei fine settimana, all'alba di una domenica mattina, al termine di una notte da sballo, fatta non più solo di luci stroboscopiche e musica ad altissimo volume ma spesso di pasticche a basso costo e di facile consumo e fiumi di alcol, e corse in automobile e rincorse alla ricerca di un senso di questa vita, di questa storia "anche se questa storia un senso non ce l'ha" come canta Vasco.
Spesso hanno tra i 15 e i 25 anni. Giovani, giovanissimi, che a volte non hanno nemmeno fatto in tempo a diventare anagraficamente adulti.
E noi, adulti attoniti, versiamo lacrime e imprechiamo contro un destino crudele e una società violenta, sbagliata, ingiusta.
Così, spesso, dimentichiamo, noi adulti, che la società è l'insieme di noi tutti.
Noi tutti che abbiamo accettato di rendere facile ciò che un tempo era proibito (anche se lo si faceva ugualmente), che abbiamo disimparato a dire "No", nell'illusione di rendere la vita più facile, senza complicazioni, senza traumi, senza difficoltà.
E invece il bello della vita sta proprio nello sfidarla, nel superare gli ostacoli, nell'affrontare le difficoltà e vincerle. 
Sembra che l'abbiamo dimenticato, noi adulti. Così, ai più giovani, non resta che cercare la sfida: nell'auto lanciata a gran velocità, nella nebbia di un cervello impasticcato, nella giostra di incontri sessuali consumati come un drink. Incapaci di emozioni, perché le emozioni vanno apprese e vanno insegnate, anche se fanno paura, anche se fanno male, anche se rendono fragili ed insicuri, come fragile ed insicura è l'umanità tutta.
Riappropriamoci delle emozioni. Riappropriamoci del pianto, non quello della sofferenza e del dolore di Rachele che piange per le vittime di una cultura falsa e illusoria, ma del pianto di gioia, quello di Filumena Marturano che scopre per la prima volta la forza e la bellezza dell'amore.

mercoledì 18 dicembre 2019

#Ediciamolo!

Non me la prendo con i ragazzi. Me la prendo con genitori e adulti che non hanno insegnato o non insegnano loro che esistono gli altri, con cui si convive e che meritano rispetto, lo stesso che si pretende per sé stessi; che le regole, anche se non piacciono, vanno rispettate; che i semafori non servono ad illuminare le città; che, soprattutto, i genitori e gli educatori non sono amici, non possono esserlo, dato che hanno un compito nobile: quello di educare e formare e per svolgerlo non si può, non si deve essere amici.

domenica 24 novembre 2019

C'è ancora tanto da fare

La cultura alla quale apparteniamo - come ogni altra cultura - si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere: fra questi anche il 'mito' della "naturale" superiorità maschile contrapposta alla "naturale" inferiorità femminile. In realtà non esistono qualità "maschili" e qualità "femminili", ma solo "qualità umane". L'operazione da compiere dunque "non è di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene". (Elena Gianini Belotti: «Dalla parte delle bambine» - Feltrinelli – 1973)



"[...] Abbiamo bisogno di forti voci e di salde immagini femminili
che confliggano con la tradizione patriarcale che forgia e intrappola donne e uomini in stereotipi che soffocano le relazioni, gli affetti, i sentimenti e le emozioni. Non abbiamo bisogno di passare alle giovani generazioni l'immaginario standard di donne fragili e uomini duri, o al massimo buoni perché protettivi (protettori?). Fragili lo siamo tutte e tutti, è la natura umana. Insieme, fragili e forti, volta per volta, alla ricerca di un equilibrio difficile, nel quale sono presenti momenti di incertezza, ma mai, mai e in nessun caso, dove la violenza sia prevista, tollerata, giustificata." (Monica Lanfranco: "Crescere uomini, Erickson, Trento, 2019, Pag. 34)

mercoledì 6 novembre 2019

Ciò che non si doveva dire (e che ancora si preferisce non dire)

A Taranto, come recita la mia carta d'identità, ci sono nata, per quanto vi abbia vissuto poco.

Non ho mai amato Taranto. Mai. Ho sempre respirato a fatica la sua aria infetta, pesante, che lasciava, lo ricordo bene, un tappeto di polvere nera sul balcone della casa di mia nonna, dove trascorrevo, a volte, le mie vacanze estive.
Erano gli anni '60 - '70.
Nel frattempo l'aria diventava sempre più irrespirabile. Un numero sempre maggiore di residenti (anche tra i miei parenti) si ammalava. Moriva.
Ma Taranto accettava. L'Italsider (come molti, fino a qualche tempo fa continuavano a chiamare quella che sarebbe diventata l'Ilva e attualmente Arcelor Mittal) dava lavoro ai tarantini della città e della provincia. Di fronte al lavoro si chiudeva un occhio. Anche due. 
In qualche caso si ricorreva all'amico sindacalista, al parroco, a chi poteva garantire un'assunzione. Il sistema clientelare si autoalimentava creando l'illusione del benessere. 
E non importava se un lavoro, quel lavoro, avrebbe potuto chiedere in cambio la propria salute, la propria vita.

Poi è accaduto qualcosa. La magistratura, finalmente, dopo cinquant'anni, ha sollevato il caso Ilva, e così si è cominciato a parlare di ciò che, almeno a Taranto, tutti sapevano ma nessuno aveva voglia parlarne.
Perché certe cose non si possono (e/o non si vogliono) dire.

venerdì 11 ottobre 2019

Libertà


“La vostra libertà è di scegliere entro i limiti delle poche possibilità che vi danno, cioè di ballare un twist o un madison, ma non di ballare o pensare; non di ballare o regnare e essere padroni del vostro voto, del vostro pensiero; non di ballare oppure vincere discussioni; non di ballare o convincere le persone con cui parlate.
Purtroppo la mia previsione è che sarete pecore, che vi piegherete completamente alle usanze, che vi vestirete come vuole la moda, che passerete il tempo come vuole la moda. Ma mi dite che soddisfazione ci trovate ad accettare una situazione simile? Ribellatevi! Ne avete l'età. Studiate, pensate, chiedete consiglio a me, inventate qualcosa per sortire da questa situazione in cui siete e poter arrivare al punto di fare realmente, con una libera scelta vostra, le cose che vi par giusto fare. Per me sarebbe una umiliazione tremenda se uno mi domandasse: <<Cosa stai facendo? Perché lo stai facendo?>> e dovessi restare a bocca aperta senza rispondere. E educo i miei ragazzi così, a saper dire in qualunque momento della loro vita, cosa fanno e perché lo fanno.”
(Citazione tratta da: Don Lorenzo Milani: "Una lezione alla scuola di Barbiana", a cura di Michele Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2004, pagg. 30 - 31; Lezione ad un gruppo di ragazze della scuola media di Borgo S. Lorenzo salite a Barbiana nel Carnevale 1965)

domenica 6 ottobre 2019

Voto ai sedicenni

"Parliamone", mi sono detta. Così, ho interpellato gli studenti delle classi cui sono stata assegnata quest'anno: una classe prima, una quarta, una quinta di un Istituto Professionale, frequentate da studenti che hanno, rispettivamente, tra i 14 e 16 anni, tra i 17 e i 19 anni e tra i 17 e i 23 anni.
Ho chiesto loro di esprimersi, dichiarando se fossero favorevoli o contrari all'idea di offrire la possibilità di votare ai sedicenni, eventualmente motivando la propria opinione.
I risultati hanno evidenziato una netta differenza tra gli studenti più piccoli e quelli delle classi quarte e quinte.
Dei 20 studenti della classe prima, 14 si sono detti favorevoli e 6 contrari.
Su 14 studenti della classe quarta, solo 1 si è dichiarato favorevole alla proposta, contrari i restanti 13.
Ugualmente, nella classe quinta, su 15 studenti, 14 si sono dichiarati contrari e solo 1 favorevole.
"A 16 anni non si è ancora maturi." o "A 16 anni è molto più facile farsi condizionare dagli adulti." sono state le ragioni addotte per motivare la propria contrarietà alla proposta.
Sono saggi i nostri ragazzi. A volte molto più di tanti adulti che parlano tanto e ascoltano poco o nulla.