martedì 9 maggio 2017

Anniversari

Ci sono giorni tutti uguali.
Ci sono giorni che segnano la storia di un Paese e restano per sempre nella memoria collettiva.
Non fu un giorno come tutti gli altri, quel 9 maggio del 1978.
Fu il giorno dell'epilogo della vicenda iniziata 55 giorni prima, il 16 marzo, con l'uccisione degli uomini della scorta e il rapimento, rivendicati dalle Brigate Rosse, di Aldo Moro.
Il cui corpo venne ritrovato in Via Caetani, a Roma, proprio il 9 maggio del 1978.

Nella mattina di quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, a Cinisi, in provincia di Palermo, venne ritrovato il corpo (dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo-Trapani) di Giuseppe Impastato, detto Peppino, la cui vicenda è stata rievocata nel film "I cento passi", di Marco Tullio Giordana (2000).
"Scena 96 - Radio Aut [interno giorno]

Salvo: "[...] Peppino non c'è più, Peppino è morto, si è suicidato. [...] Questo leggerete sui giornali, questo vedrete alla televisione... Anzi non vedrete proprio niente... [...] perché questa mattina giornali e televisione parleranno di un fatto molto più importante... del ritrovamento a Roma dell'onorevole Aldo Moro, ammazzato come un cane dalle Brigate rosse. E questa è una notizia che fa impallidire tutto il resto, per cui: chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia! Chi se ne fotte di questo Peppino Impastato! Adesso spegnetela questa radio, giratevi dall'altra parte. Tanto si sa come va a finire, si sa che niente può cambiare.[...] E tu Peppino non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo [...]" (Marco Tullio Giordana, Claudio Fava, Monica Zapelli: "I cento passi", Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2001, pgg. 145, 146).




lunedì 1 maggio 2017

"Un uomo" da ricordare

ORIANA FALLACI: “UN UOMO”, Rizzoli, Milano, 1979
(Pgg. 11,12, 17, 456, 457)

Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! […] Alle due del pomeriggio erano cinquecentomila, alle tre un milione, alle quattro un milione e mezzo, alle cinque non si contavano più. […] Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto. […] Mi toglieva il respiro […] la certezza che tutto ciò non sarebbe durato che un giorno, poi il ruggito si sarebbe spento, il dolore si sarebbe dissolto nell’indifferenza, la rabbia nell’ubbidienza, e le acque si sarebbero placate morbide molli obliose sul gorgo della tua nave affondata: il Potere avrebbe vinto ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, cade sempre per risorgere dalle sue ceneri, magari credi di averlo abbattuto con una rivoluzione e invece rieccolo, intatto, diverso nel colore e basta, qua nero, là rosso, o giallo o verde o viola, mentre il popolo accetta o subisce o si adegua. Per questo sorridevi quel sorriso impercettibile, amaro e beffardo? […]

Ma più scappavo, più lo rifiutavo, più il maledetto ruggito mi inseguiva con l’eco del ricordo, del dubbio, quindi della speranza, consolandomi e perseguitandomi come il tic-tac di un orologio senza lancette. Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. […] Sicché, a un certo punto, cominciai a dirmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perché sembrasse vero o diventasse vero.

*  *  *

Fu così che viaggiando per sentieri ora limpidi e ora foschi di nebbia, ora aperti al passaggio e ora ostruiti da rovi e liane, le due facce della vita senza le quali non esisterebbe la vita, ricalcando piste a me note perché le avevamo tracciate insieme o quasi ignote perché le conoscevo esclusivamente attraverso gli episodi che mi avevi narrato, andai alla ricerca della tua fiaba. La solita fiaba dell’eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell’uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte essi vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.

*  *  *


E così, mentre accadevano altre cose leggiadre, […] mentre Papandreu adottava il tuo cadavere come si adotta un orfanello indifeso e lo sbandierava come un cencio in comizi mentre i tuoi amici e compagni finivano in blocco con lui in cambio d’una bella poltroncina in Parlamento; […] mentre anch’io venivo minacciata con lettere e telefonate, prova-a-scrivere-certe-cose-e-vedrai; stampa-il-tuo-libro-e-vedrai; mentre il popolo accettava questo, di nuovo, subiva questo, di nuovo, cieco e sordo e zitto, di nuovo, piegato di nuovo all’obbedienza o alla convenienza o all’impotenza; mentre nessuno osava dire assassini tutti, a destra a sinistra al centro, lo avete ammazzato tutti insieme, lerci assassini […], il Potere vinse ancora una volta. L’eterno Potere che non muore mai, che cade solo per risorgere, uguale a se stesso, diverso solo nella tinta. Ma tu lo avevi ben capito che sarebbe finita a quel modo e, se mai avesti un dubbio, esso svanì nell’attimo in cui tirasti il respiro profondo che ti succhiava dall’altra parte del tunnel: nel pozzo dove vengono puntualmente gettati coloro che vogliono cambiare il mondo, abbattere la Montagna, dare voce e dignità al gregge che bela dentro il suo fiume di lana. I disubbidienti. I solitari incompresi. I poeti. Gli eroi delle fiabe insensate ma senza le quali la vita non avrebbe alcun senso, e battersi sapendo di perdere sarebbe pura follia. Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, […] lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo di ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo.

domenica 30 aprile 2017

Professione insegnante

Che tristezza imbattersi in un docente che non crede nel lavoro che svolge!
Che piacere, invece, incontrare insegnanti che amano il loro lavoro. Ci sono, questi insegnanti, e io ne conosco molti. Sono quelli che non hanno bisogno di mostrarsi necessariamente, sono quelli che credono nel lavoro che fanno e nell'alto compito educativo assegnato loro dalla società e dalle Istituzioni; sono quelli che non rivendicano quotidianamente un compenso economico per quanto fanno, nonostante tutto il loro tempo, anche quello non retribuito, dedicato all'attività che svolgono. Ci sono, questi insegnanti, e non c'è nulla di più importante di aver l'opportunità di incontrarne almeno uno durante il proprio percorso scolastico (come è capitato a tanti).

mercoledì 26 aprile 2017

Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che
fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia
aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o
della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non
risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere
vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto
di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una 
splendida felicità.

" [...] Lentamente muore chi non capovolge il tavolo [...]"
Ricordo che qualche anno fa alcuni dei miei alunni erano rimasti particolarmente colpiti da questo verso tratto da "Lentamente muore". Avevamo imbastito in proposito una lunga discussione.
L'intera poesia era piaciuta molto. Una poesia attribuita, sul loro manuale scolastico, a Pablo Neruda.
Quando, successivamente, ho comunicato agli studenti che il testo della poesia non è stato scritto da Pablo Neruda ma da Martha Medeiros, " E' comunque bella!" hanno commentato alcuni mentre altri hanno sottolineato che:
a) anche i libri di testo possono contenere degli errori;
b) tutte le conoscenze possono essere messe in discussione;
c) "Lentamente muore [...] chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" / piuttosto che un insieme di emozioni [...]".
In queste situazioni gli studenti sono straordinari...


sabato 22 aprile 2017

25 Aprile


« Partigiano!

 Ti ho visto appeso
immobile.
Solo i capelli si muovevano
leggermente sulla tua fronte.
Era l'aria della sera
che sottilmente strisciava
nel silenzio
e ti accarezzava,
come avrei voluto fare io. »

(Giacomo Manzù, 5, dedica incisa sul "Monumento al partigiano" - Bergamo)




 Salvatore Quasimodo

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
tra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.



mercoledì 12 aprile 2017

Biciclettate in testa e tutti zitti!

La locandina del quotidiano locale di qualche giorno fa riportava la notizia secondo cui la città in cui vivo,  si ritrova a occupare uno dei primi posti per numero di multe comminate. Non nego che sia così. Osservo tuttavia che l'elevato numero di multe, almeno al momento, non mi sembra abbia modificato comportamenti che violano sistematicamente le regole della convivenza civile nonché quelle del codice stradale.
Quotidianamente incrocio (a volte mettendo a rischio anche la stabilità delle mie ginocchia, essendo costretta a cambi di direzione improvvisi) ciclisti che percorrono (talvolta anche a velocità sostenuta)  marciapiedi non individuati come piste ciclabili, ciclisti che percorrono contromano carreggiate riservate alla circolazione dei veicoli, pedoni che attraversano fuori dalle strisce pedonali, sbucando a volte dietro autobus o mezzi che impediscono di vederli chiaramente, costringendo gli automobilisti a brusche ed improvvise frenate, pedoni che attraversano con il rosso, automobilisti che in prossimità delle strisce pedonali accelerano anziché rallentare, automobilisti che, al scatto del verde, partono come se partecipassero al gran premio.
Tacerò poi delle strade disseminate di escrementi di cane i cui proprietari si guardano bene dal raccogliere.
Quel che maggiormente mi indigna, tuttavia, è l'arroganza di chi non rispetta le regole e che risponde seccato se glielo si fa notare.
Un paio di settimane fa, in una circostanza simile, ho rischiato una biciclettata in testa: percorrevo il marciapiede antistante il mio edificio scolastico; era l'ora di inizio delle lezioni e c'erano molti pedoni. Improvvisamente, facendosi avanti tra uno slalom e l'altro, è arrivato un ciclista che ha chiesto sì permesso, ma lo ha fatto sfiorando i pedoni che gli impedivano il passaggio. Ho commentato fra me e me (ma non tanto da non essere sentita): "Chiede pure permesso! Roba da matti!". Non lo avessi mai fatto: il tipo, grande e grosso, ha afferrato a due mani la bicicletta, sollevandola, e a cominciato a inveire contro di me in inglese (o almeno, penso che di inglese si trattasse, avendo io riconosciuto, tra le altre parole, quella del titolo di una canzone di un po' di anni fa degli Articolo 31 cantata con Paola Turci). Non ho osato guardarlo e ho temuto di ricevere la bicicletta sulla testa. Sono ammutolita e ho proseguito il mio cammino, temendo di essere aggredita. Mi sono indignata e, ancora oggi, ricordando l'episodio, mi indigno ancora di più: sinceramente io non ne posso più di avere a che fare con chi, sempre più spesso, non solo non rispetta le regole ma non rispetta nemmeno gli altri che, muti, devono accettare la legge di chi urla più forte.

lunedì 10 aprile 2017

I semini della buona educazione.

In attesa che gli umani recuperino "la legge morale dentro di sé" di kantiana memoria, ci si potrebbe affidare alla tecnologia che, nel contempo, ha fatto passi da giganti: un microchip, inserito alla nascita in ciascun umano, che possa impedire gli attraversamenti con il rosso, l'invasione di piste ciclabili da parte di automobilisti frettolosi, bevute esagerate accompagnate da corse folli in auto, corruzione e collusi, etc., etc, etc.. Sarebbe un mondo asettico, non certo felice e, forse, nemmeno meno violento. E, allora, non ci rimane che sperare nei semini lasciati da una buona educazione.

giovedì 6 aprile 2017

Parlare al cuore

Da tempo, ormai, psicologi e pedagogisti sostengono che, per favorire l'apprendimento degli studenti, in particolare degli adolescenti, occorre che il docente parli al loro cuore, sia in grado, cioè, di incuriosirli, di emozionarli, di appassionarli, trasmettendo loro non solo i contenuti della sua disciplina ma il suo amore per la disciplina e per i contenuti che insegna.
Ciascuno di noi ha sperimentato quanto sia importante che i docenti stabiliscano un clima di apprendimento sereno, che stimoli la motivazione e, che, soprattutto, sia in grado di appassionare gli studenti, quasi seducendoli con la propria passione.
Parlare al cuore può farlo solo chi parla col cuore.

sabato 25 marzo 2017

Angherie da bulli: le responsabilità degli adulti

C'è stato un periodo, una ventina di anni fa, in cui si tendeva a liberare le famiglie dalle loro responsabilità, attribuendo certi comportamenti giovanili alla cattiva influenza della società. La verità è che la società è data dalle persone che la costituiscono e se tra queste persone ci sono genitori che non educano i figli al rispetto di sé stessi e degli altri, ritenendo magari certi comportamenti solo innocenti ragazzate, non possiamo che aspettarci tali risultati. Quando tuttavia si verificano certi episodi, non si può non sottolineare la grave responsabilità degli adulti, lontani a volte da quel patto educativo che permette ai più giovani di crescere senza dover calpestare e umiliare coloro che si ritengono più deboli, nell'illusione di essere più forti. 
Non si è più forti: si è solo dei deboli vigliacchi.

martedì 21 marzo 2017

La poesia del calcio

Sembra che Umberto Saba, inizialmente, non amasse il calcio. Pare che non avesse alcuna simpatia per i tifosi di cui non apprezzava l'entusiasmo o la disperazione per un pallone entrato, o no, nella rete.
Poi, un giorno, gli capitò di assistere a una partita, quella tra la potentissima Ambrosiana e la vacillante Triestina, che finì con un risultato esaltante per la Triestina, uno zero a zero che valeva quanto una vittoria data la differenza tra le forze in campo.
Il clima esaltato dello stadio, l'entusiasmo delirante della folla contagiarono il poeta, che vide nel gioco del calcio una delle espressioni simboliche della vita, la possibilità di palpitare, di soffrire e di gioire insieme agli altri, proprio come accade nella quotidianità.
Al gioco del calcio Umberto Saba dedicò cinque poesie che inserì nel suo "Canzoniere" e di cui riporto alcuni versi.
"[...] Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.
Le angosce,
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi sì lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi. [...]
[...] V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.
(Umberto Saba: "Squadra paesana")
"Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi
che all'altra parte vi volgete, a quella
che più nera s'accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome. [...]
Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa? [...]
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.
(Umberto Saba: "Tre momenti")
"[...] La folla - unita ebbrezza- par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere. [...]
(Umberto Saba, "Goal")

I brani citati sono tratti da: "Umberto Saba: "Il Canzoniere", Scelta e annotazione di Folco Portinari, Einaudi Scuola, Milano, 1990, pgg. 165, 167, 172.