lunedì 9 luglio 2018

Oltre l'apparenza e il pregiudizio

Quotidianamente, a volte senza rendersene conto, accade di avere dell'altro, qualunque età abbia, a qualunque genere appartenga, un'idea fondata su un pregiudizio o che anche solo si limita a basarsi su un pregiudizio.
Gli stereotipi della "Bella uguale stupida" (che, negli ultimi decenni ha coinvolto anche gli uomini "Belli uguale stupidi"), o quello del milanese lavoratore indefesso e del romano fannullone nonché tutti gli altri giudizi stereotipati o che si limitano a fermarsi alle apparenze senza indagare oltre, caratterizzano buona parte delle credenze del genere umano.
Fermarsi all'apparenza o limitarsi ad accettare gli stereotipi e le categorie definite facilita la definizione di quanto e di chi ci sta intorno ma non ci aiuta a conoscere il mondo, non ci aiuta a conoscere gli altri e, forse, nemmeno noi stessi.
Andare oltre l'apparenza dovrebbe essere l'obiettivo di ciascuno di noi per conoscere ed apprezzare tutti coloro che ci stanno intorno, al di là delle false opinioni e certezze di cui, alcuni, continuano a nutrirsi.
La famiglia e soprattutto la scuola possono fare molto. 
E sarebbe un traguardo riuscire a far sì che, nel giro di pochi anni, non ci si trovi ancora di fronte a tabelle di raccolta di idee che degli uomini e delle donne riportino certe definizioni.


STEREOTIPI E PREGIUDIZI DI GENERE
IN UNA PAROLA


DEFINIZIONI DATE DA UOMINI 
DEFINIZIONI DATE DA DONNE
UOMINI
DONNE
UOMINI
DONNE
EGOISTI
RISOLUTE
STUPIDI
COMPLESSE
ONESTI
LUNATICHE
INCOMPRENSIBILI
PARANOICHE
NOBILTA’ D’ANIMO
BELLEZZA
EGOISTI (2)
SENSIBILI (4)
VERI AMICI
SENSUALE
IMMATURI
DETERMINATE (2)

17, 20, 24, 69, tombola!

Sinceramente, ne ho abbastanza di chi continua a lamentarsi di essere passato di ruolo dopo 10, 15, 20 anni di precariato: era (ed è) il meccanismo delle supplenze e di immissione in ruolo che ha reso (e rende) una prassi tutto ciò. Si consideri che tra gli anni '80 e la fine degli anni '90 i concorsi sono rimasti bloccati per anni. Contemporaneamente si permetteva di inserirsi nelle graduatorie di supplenza, accettando, in certi casi, come unico titolo quello di studio, che non necessariamente attestava la preparazione per una professione tanto importante e delicata quale è quella dell'insegnante.
Quando io, nel 2005, sono entrata in ruolo, dopo 17 anni di precariato, c'erano con me colleghi che avevo frequentato per decenni, invecchiando con loro, incontrandoli annualmente in occasione delle nomine annuali di supplenza. 
Lo scorso anno, in occasione della discussione in Comitato di Valutazione, la maggior parte dei colleghi che terminavano il loro periodo di prova per l'immissione in ruolo, aveva alle spalle un periodo di precariato oscillante tra gli 11 e i 18 anni.
Negli ultimi anni, anche per l'intervento della Commissione di Giustizia europea, a seguito di continui ricorsi, il periodo di precariato si è notevolmente accorciato. La verità è che non si sarebbe dovuto, decenni fa, mettere in atto un meccanismo tanto perverso e umiliante per tutti coloro che nella scuola lavorano o che della scuola fanno parte.
Il problema vero è che, tuttavia, attualmente sento lamentarsi persone che alle spalle hanno un periodo brevissimo di precariato e che ambirebbero ad entrare nei ruoli di docente della scuola pubblica non per passione ed amore per questo mestiere ma per garantirsi il posto fisso, magari nello stesso luogo in cui sono nati. Non è un segreto per nessuno che le maggiori opportunità di esercitare questo mestiere sono al Nord e non è un caso che molti, me compresa, subito dopo la laurea si sono inseriti nelle graduatorie di supplenza delle province del settentrione.  Ecco, io costoro, se potessi, li inviterei a provare altri mestieri: con la scuola e con gli studenti non si scherza: non sono pacchi e non sono timbri o pratiche di cui occuparsi come in un ufficio.

domenica 8 luglio 2018

Quelli del professionale

Quante volte è capitato di dover assistere all'autodenigrazione da parte degli studenti degli istituti professionali!
 
"Profe, non siamo al liceo, noi siamo del professionale!"
"Profe, è inutile, perde tempo, queste cose non le capiremo mai!"
"Profe, non siamo capaci, non riusciamo, profe, lasciamo perdere!!!"
Spesso, l'atteggiamento autodenigratorio è dettato dalla paura di imbattersi in un insuccesso, l'ennesimo della loro storia scolastica, fatta di frasi ascoltate da docenti o presunti tali che li hanno feriti, offesi con quelle che sarebbero dovute essere battute divertenti quali "Non capisci proprio niente!" oppure "Lo sapevo che non avresti capito nulla, la scuola non è proprio per te!".
A volte, invece, l'autodenigrazione è il tentativo di non impegnarsi, di bighellonare piuttosto che approfittare dell'opportunità di imparare che la scuola italiana, seppur malandata, può offrire.
In fondo, che gli studenti giochino al ribasso ci può anche stare.
Ciò che trovo inammissibile e assolutamente censurabile è invece l'atteggiamento di quegli insegnanti, di diverso ordine e grado, che di fronte alle difficoltà degli alunni degli istituti professionali esclamano: "Ma è chiaro che abbiamo difficoltà, sono i peggiori provenienti dalle elementari e dalle medie!"
Spiegatemi una cosa, cari colleghi che così vi esprimete. Peggiori si nasce o si diventa?
Troppo comodo insegnare a chi ha buone capacità e ottima volontà. Ma la sfida, come ci ha insegnato Don Milani, è insegnare a Gianni, non a Pierino del dottore.
"Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. É un ospedale che cura i sani e respinge i malati." (Scuola di Barbiana: "Lettera a una professoressa", Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, I edizione 1967, pg. 20)
(Rielaborazione di un vecchio post pubblicato sulla piattaforma Splinder il ‎3 ‎ottobre ‎2008 e postato su Sala Docenti il 27 ottobre 2012) 

sabato 7 luglio 2018

"Chiamami col tuo nome"

"<<Non parleremo mai più, io e te>> dissi, mentre scendevamo l'interminabile pendio, il vento tra i capelli.
<<Non dire così.>>
<<Lo so già. Ci limiteremo a chiacchierare. Chiacchierare, chiacchierare. Stop. E sai qual è la cosa più buffa? Che me lo farò bastare.>>
<<Ti è appena uscita una rima>> rimarcò.
Adoravo il modo in cui perdeva la pazienza con me." 
(André Aciman: "Chiamami col tuo nome", Guanda, Milano, 2008, Tredicesima edizione febbraio 2018, pagina 96)

Il cuore non basta

"Figli si nasce, genitori no." recitava uno slogan di una trentina di anni fa. L'esperienza genitoriale, da sempre sfidante, è diventata parecchio complessa soprattutto negli ultimi decenni. Non bastano l'intuito e l'amore di una madre e di un padre per evitare di commettere errori gravissimi nel crescere i propri figli. Gli studi specifici hanno dimostrato e dimostrano con sempre più precisione quanto possano influire ed essere deleteri i comportamenti dei genitori sullo sviluppo di ciascun figlio. La cui educazione, di fatto, inizia già nel momento del concepimento. L'idea che i genitori si fanno della creatura che sta per nascere comincerà già ad influire su ciò che quella creatura diventerà. 
Forse sarebbe il caso che i futuri genitori e i genitori stessi seguissero corsi specifici di aggiornamento per imparare ad essere genitori. Genitori si diventa e si impara ad esserlo studiando, leggendo testi specifici. Perché tutto l'amore del mondo e l'intuito di una madre e di un padre non bastano più.



venerdì 6 luglio 2018

Il piacere della collaborazione: un ritorno alle origini

"PENSIERI, COMMENTI E IDEE IN LIBERTA'
Le sale insegnanti non sono tutte uguali: in alcune, come quella in cui noi della redazione ci siamo incontrati, si parla di tutto, ci si confronta e nascono ottime collaborazioni che rendono piacevole lo stare a scuola. In questo blog vogliamo ricreare virtualmente il clima di quella sala docenti: uno spazio per confrontarsi e far sentire la propria voce, una sorta di redazione o di radio libera simile a quelle degli anni Settanta, quelle libere veramente." 
Con queste parole, nel settembre 2007, era stato inaugurato il blog "Sala Docenti". L'idea era quella di mettere a confronto opinioni e pensieri diversi, che partissero, ma non necessariamente, dal mondo della scuola, e si estendessero poi alle diverse situazioni della vita quotidiana. Il blog avrebbe dovuto prevedere la collaborazione di più persone, insegnanti, ma anche genitori e studenti. Di fatto, poi, solo Cristina, la collega con cui ho condiviso momenti importanti della mia vita professionale, e non solo, è sempre stata un'ottima e preziosa collaboratrice, arricchendo con le sue riflessioni le pagine di "Sala Docenti". 
La collaborazione è sempre preziosa e rende indubbiamente più ricca la riflessione, la discussione e il confronto.
Per questo, anche #Sala Docenti vuole riprovarci, con una sorta di ritorno alle origini. L'input a farlo, devo riconoscerlo e gliene sono grata, è partito da Diego, uno dei miei ex studenti.
Così, da oggi, questo blog diventerà una redazione cui collaboreranno voci diverse. Perché solo insieme si cresce davvero.

La letteratura insegna: Pier Paolo Pasolini


  Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.

(Pier Paolo Pasolini: “Alla mia nazione” da "La religione del mio tempo", 1961)

martedì 3 luglio 2018

Esultare sparando

Ditemi quello che volete: capisco la gioia, ma esultare sparando proprio no, non si può vedere né accettare!

lunedì 2 luglio 2018

Diritto di cittadinanza

Caleb è nato in Italia. Frequenta la scuola italiana da quando aveva sei anni. Nella sua classe, nell'anno scolastico appena terminato, è stato uno dei migliori. Ma non è cittadino italiano. Lo sarà quando avrà compiuto il diciottesimo anno di età. Ecco, io questa cosa non l'ho capita e probabilmente non la capirò mai.

L’ENIGMA CHE SIAMO


"<< Ho passato trent’anni a scavare nelle coscienze, nel grande mistero dell’uomo, >> mi confida un neuropsichiatra << ma le zone buie sono ancora molto più vaste di quelle che mi pare d’avere rischiarato.  Un giorno viene da me un uomo con il braccio destro paralizzato. Era una paralisi isterica, non provocata da un trauma, da un incidente, ma da un’alterazione di nervi. L’avevano già curato alcuni miei colleghi, senza risultato. Decido di trattarlo con l’ipnosi. Tanto per spiegarmi con te, che di medicina non sai niente, ti dirò che volevo convincerlo, sotto il trattamento d’ipnosi, a rendersi conto che il braccio non era malato e che, per recuperarlo, sarebbe bastato trasmettergli l’ordine di muoversi. Così è stato infatti. Una guarigione rapida, quasi miracolosa. Il mio cliente guardava muoversi il suo braccio e piangeva per l’emozione. Bene, neanche dieci giorni dopo quell’uomo timido e quieto va a casa, apre il cassetto in cucina, prende un coltello con venti centimetri di lama e lo pianta nel ventre della moglie. Hai capito che cosa era successo? >>
Rispondo di no, che non ho capito niente, che mi sembra solo il delitto di un pazzo. << Eh no, >> riprende il medico << la faccenda è più complessa. Quell’uomo da tempo odiava la moglie e nell’inconscio aveva già stabilito di ucciderla. La paralisi era stata, senza che lui lo sapesse, la sua difesa. Insomma, il delitto gli ripugnava, ma, terrorizzato dal pensiero di poterlo compiere in un momento di follia, aveva bloccato con la paralisi il braccio destro. Ed ora, recuperato il braccio, tolto il freno che la coscienza gli aveva misteriosamente imposto, aveva ucciso. Vedi che enigma siamo? >>”
 Vittorio Buttafava: "La fortuna di vivere - Taccuino", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1982, Pagg. 79 - 80 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1981) 

"Abbiamo dentro, tutti, una ferita piccola o grande che non osiamo scoprire, che ci farebbe gridare di dolore solo a sfiorarla. Meglio lasciarla lì, nel silenzio, in attesa che diventi una cicatrice."
Vittorio Buttafava: "Una stretta di mano e via", Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1978, Pag. 30 (Prima Edizione: Rizzoli Editore, Milano, 1976) 


"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."
La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.
E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.
L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 
A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.