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mercoledì 12 aprile 2017

Biciclettate in testa e tutti zitti!

La locandina del quotidiano locale di qualche giorno fa riportava la notizia secondo cui la città in cui vivo,  si ritrova a occupare uno dei primi posti per numero di multe comminate. Non nego che sia così. Osservo tuttavia che l'elevato numero di multe, almeno al momento, non mi sembra abbia modificato comportamenti che violano sistematicamente le regole della convivenza civile nonché quelle del codice stradale.
Quotidianamente incrocio (a volte mettendo a rischio anche la stabilità delle mie ginocchia, essendo costretta a cambi di direzione improvvisi) ciclisti che percorrono (talvolta anche a velocità sostenuta)  marciapiedi non individuati come piste ciclabili, ciclisti che percorrono contromano carreggiate riservate alla circolazione dei veicoli, pedoni che attraversano fuori dalle strisce pedonali, sbucando a volte dietro autobus o mezzi che impediscono di vederli chiaramente, costringendo gli automobilisti a brusche ed improvvise frenate, pedoni che attraversano con il rosso, automobilisti che in prossimità delle strisce pedonali accelerano anziché rallentare, automobilisti che, al scatto del verde, partono come se partecipassero al gran premio.
Tacerò poi delle strade disseminate di escrementi di cane i cui proprietari si guardano bene dal raccogliere.
Quel che maggiormente mi indigna, tuttavia, è l'arroganza di chi non rispetta le regole e che risponde seccato se glielo si fa notare.
Un paio di settimane fa, in una circostanza simile, ho rischiato una biciclettata in testa: percorrevo il marciapiede antistante il mio edificio scolastico; era l'ora di inizio delle lezioni e c'erano molti pedoni. Improvvisamente, facendosi avanti tra uno slalom e l'altro, è arrivato un ciclista che ha chiesto sì permesso, ma lo ha fatto sfiorando i pedoni che gli impedivano il passaggio. Ho commentato fra me e me (ma non tanto da non essere sentita): "Chiede pure permesso! Roba da matti!". Non lo avessi mai fatto: il tipo, grande e grosso, ha afferrato a due mani la bicicletta, sollevandola, e a cominciato a inveire contro di me in inglese (o almeno, penso che di inglese si trattasse, avendo io riconosciuto, tra le altre parole, quella del titolo di una canzone di un po' di anni fa degli Articolo 31 cantata con Paola Turci). Non ho osato guardarlo e ho temuto di ricevere la bicicletta sulla testa. Sono ammutolita e ho proseguito il mio cammino, temendo di essere aggredita. Mi sono indignata e, ancora oggi, ricordando l'episodio, mi indigno ancora di più: sinceramente io non ne posso più di avere a che fare con chi, sempre più spesso, non solo non rispetta le regole ma non rispetta nemmeno gli altri che, muti, devono accettare la legge di chi urla più forte.

venerdì 10 marzo 2017

Lezioni di vita

A volte ho la sensazione di vedere, solo io, ciò che gli altri non vedono: bambini sempre più capricciosi, irritanti ed ineducati; adolescenti confusi, deboli, arroganti, sballati; adulti irresponsabili, irriverenti, ignoranti, boriosi. Un paese allo sbando. Una scuola allo sbando. Una società sempre più disorientata. E tante persone sole. Affannate. Di corsa. Tutte in agitazione ad inseguire il nulla.
Mi chiedo: ma tutto ciò lo vedo solo io? O gli altri lo vedono e fanno finta di nulla? O gli altri non lo vedono perchè non vogliono vederlo?
"Non vediamo quello che non vogliamo vedere" mi disse molti anni fa la madre di un alunno, completamente sordo dalla nascita.
Quella madre, disperata, in un drammatico colloquio, mi rivelò che solo a due anni dalla nascita del figlio si rese conto, insieme al marito, della disabilità del bambino. Eppure erano entrambi colti, appartenenti a famiglie di fascia sociale elevata, benestanti. Come era stato possibile che non si fossero resi conto che il loro bambino non udiva nulla, non si voltava verso la fonte da cui provenivano i suoni?

"Il fatto è, professoressa, che noi non accettavamo che potesse essere davvero così. E lo abbiamo negato, soprattutto a noi stessi, finché è stato possibile farlo. Non vediamo mai quello che non vogliamo vedere. E' così, per tutti gli eventi, piccoli o grandi che siano, della vita."

lunedì 6 marzo 2017

Come in amore (e lo sostiene anche Galimberti!)

Leggo che Umberto Galimberti (http://wisesociety.it/incontri/umberto-galimberti-la-nostra-societa-ad-alto-tasso-di-psicopatia-non-e-adatta-a-fare-figli/) sostiene che la scuola può rimediare alle carenze affettive vissute in famiglia trasmettendo i suoi contenuti con passione, facendo leva sulle emozioni degli studenti ed insegnando loro ad appassionarsi.

Qualcosa del genere aveva già scritto Antonella Landi, in un suo articolo pubblicato il 10 settembre 2011 sulle pagine fiorentine del "Corriere della Sera" dedicate a "I quaderni della Profe", la sua rubrica settimanale, esprimendosi così: "A scuola è come in amore: bisogna essere in due a voler far funzionare il giochino.".


Altrimenti, avevo aggiunto io qualche tempo dopo, in occasione di una delle più memorabili sfuriate che mi sia capitato di fare agli studenti, diventa masturbazione. Masturbazione intellettuale, ma sempre masturbazione è.



In quell'occasione, loro, gli studenti, apprezzarono. Chiesero di scrivere la frase sulla lavagna.
Ci eravamo chiariti. Ci eravamo rappacificati.
Stavano seguendo attentamente, prendendo diligentemente gli appunti per prepararsi alla prossima verifica scritta. E anch'io procedevo in modo spedito e preciso, attenta ad ogni dubbio o richiesta che provenisse da loro.
Ci eravamo chiesti reciprocamente scusa e sembrava che nulla, in precedenza, fosse accaduto.



Proprio come succede dopo un litigio tra innamorati. Proprio come succede in amore.

sabato 21 maggio 2016

Complicazioni d'amore



"Forse passerà [...] una mattina, a salutare. Solo a salutare, niente di importante. Non servirebbe a niente comunque, perché lei lo sa benissimo, lo sa bene quanto lui che è l'amore, imperfetto e disordinato, a tenerli separati, proprio mentre in qualche modo li unisce [...]."

La citazione, tratta dal romanzo "Gente senza storia" di Judith Guest (Traduzione di Masolino d'Amico, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1977, pg. 277), si riferisce alle difficoltà relazionali tra  una madre e un figlio coinvolti in una tragedia familiare, ovvero la morte del figlio primogenito, amatissimo dalla madre e modello di riferimento per il fratello. Evidenzia la necessità, in alcuni casi, di rimanere lontani, anche se ci si vuole bene, perché restando vicini si soffrirebbe troppo.

E' una situazione che può riguardare non solo le relazioni tra madri e figli, ma tutte le tipologie di relazione, comprese quelle amicali.

L'amore verso gli altri non è sempre lineare, chiaro, perfetto. 

A volte è complicato, doloroso, difficile. Al punto da richiedere una separazione, per evitare di continuare a farsi del male.

domenica 8 maggio 2016

Le altre madri

E poi ci sono le altre madri.
Quelle di cui non si parla mai, men che meno nel giorno della Festa della Mamma.
Le madri che sono diventate tali loro malgrado, che mai avrebbero voluto esserlo e che vivono o hanno vissuto con disagio, fastidio e sofferenza il loro essere madri.
Quelle che hanno abbozzato, quelle che si sono ribellate, quelle che sono o sono state madri cattive o indifferenti o fredde o crudeli.
E' l'altra faccia della medaglia di una condizione dell'essere che è esaltata, forse in modo eccessivo. 
"Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. E' solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto a urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai." (Oriana Fallaci: "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli Editore, Milano, 1975, pagina 13).

martedì 12 aprile 2016

Educazione

1) Uscendo di casa, mentre apro il cancello d'ingresso del condominio, incrocio una ragazzetta che contemporaneamente sta arrivando per entrare. Spalancando io il cancello, la tipa si infila senza dire né grazie, né prego, né arrivederci o similia.
2) Camminando sul marciapiedi, incrocio una ragazzetta (un'altra, non quella di cui sopra) che sta tranquillamente circolando in bicicletta e si scoccia anche un po' perché io le intralcio il cammino. Le faccio notare (sono o non sono una rompiscatole?) che la pista ciclabile è esattamente sul marciapiedi opposto e che, visto che c'è, sarebbe anche il caso di sfruttarla. La tipa mi guarda infastidita e scocciata.
Cari genitori, ma voi insegnate l'educazione ai vostri figli?

domenica 10 aprile 2016

H 24

Lo sviluppo e la diffusione sempre maggiore delle nuove tecnologie richiedono un ripensamento sulle condizioni lavorative che, soprattutto per certe mansioni, rischiano di diventare una vera e propria schiavitù per il lavoratore che, dotato di smartphone, finisce per essere, 24 ore su 24, a completa disposizione del datore di lavoro, dei clienti o di tutti coloro che, avendo bisogno di contattarlo, si sentono autorizzati a farlo in qualunque momento della giornata.

 Così, lo studente che ha necessità di un chiarimento,  non esita a contattare l'insegnante e ugualmente farà il datore o il collega di lavoro, senza farsi scrupolo di considerare che, come tutti, il periodo di riposo per ciascuno di noi è un diritto, oltre che un dovere. Staccare il cervello dalle fatiche quotidiane, dalle incombenze lavorative, è una vera e propria necessità. Le vacanze, le ferie, sono state pensate proprio per questo. Non si può pensare di lavorare 365 giorni all'anno per 24 ore su 24. Il lavoro intellettuale rischia di diventare un lavoro a tempo pieno che non si interrompe mai e non contempla giorni festivi e feste comandate.

"Se una radio è libera..."

"Bastarono i nostri quindici anni.
Bastò un trasmettitore da 5 watt preso a centomila lire.
Bastò un vecchio giradischi Philips, un microfono da dieci carte e un mixerino con due fader.
Bastò l'estro di un amico diciassettenne che faceva l'Istituto tecnico.
Bastò una stanza di casa sua e un'antennazza sui suoi tetti.
E avemmo la nostra radio."
(Luciano Ligabue: "Fuori e dentro il borgo", Baldini & Castoldi, Milano, 1997, pg. 80)

"<<Ecco.>>
<<Ecco cosa?>>
<<Novantanove megahertz.>>
<<Cosa?>>
<<E' la frequenza, la nostra frequenza.>>
<<Vuoi dire, che...>>
<<Siamo in onda.>>
[...]
Quella era Radiopirata, la più piccola radio dell'universo. Trasmetteva sui 99 megahertz. Non ce ne sarebbe stata mai più una uguale."
(Francesco Carofiglio: "Radiopirata", Marsilio Editori S.p.A., Venezia, 2011, pg. 150, pg. 152)



https://www.youtube.com/watch?v=xzlqv1ZFUyY



venerdì 8 aprile 2016

Quelli che non si lasciano stare

Bruno e Freccia a Radio Raptus International – Quelli che non si lasciano stare 

Bruno: E’ sabato notte e in questo momento molti di voi avranno
            di meglio da fare che stare ad ascoltare noi alla radio…
            Molti avranno anche di peggio da fare… Molti se la stanno             spassando di sicuro, ma sono convinto che tanti di voi che, guarda caso, avranno diciotto - vent’anni sono lì che non si lasciano stare neanche a quest’ora di sabato.
             Io non so com’era avere diciotto - vent’anni negli anni ’50 o ’60. So cosa vuol dire, per me e per tanti che conosco, averli adesso. ‘Sto 1977 è un gran casino. C’è un gran movimento in  giro. Non so dire se è bello o brutto… però… però… è…veloce.
            Ci sono le bombe, c’è il movimento studentesco, ci sono le radio libere, ci sono i genitori che sempre di più sono come tu giuri che non sarai mai.
            Ci sono le utopie, ci sono le religioni… e ci sono, appunto, quelli che non si lasciano stare.
Freccia: … vuoi dire che tocca a me?
Bruno:  Secondo me sì.
             Ci sono i buchi. E in mezzo a tutto questo c’è il nostro bisogno di saperne di più. Stiamo viaggiando senza cartina… o con una cartina illeggibile.
             E secondo me è arrivato il momento che questa cartina ce la facciamo noi… E una volta fatta la facciamo circolare.
Freccia: Si dicono un sacco di stronzate sull’eroina.
Bruno:  Vero. Te ad esempio, come hai cominciato?
Freccia: Io mi sono lasciato cominciare… E’ stata una tipa a farmi provare. A me non sarebbe mai venuto in mente di infilarmi un ago in vena.
Bruno:  E perché hai lasciato che lei lo facesse?
Freccia:Probabilmente quella volta più che chiedermi “perché” mi
             sono chiesto “perché no?”.
Bruno:  E com’è stato?
Freccia: Be’, quella volta lì bellissimo. Mi è arrivata una gran botta
              e sono sparite di colpo tutte le stronzate. Un gran calore e poi… come tanti orgasmi che provavo tutt’insieme lungo la              schiena, sulle gambe, dappertutto.
Bruno:  E poi?
Freccia: E poi ho fatto come fanno tutti, cioè mi sono detto: mi
             buco una volta o due ancora, tanto smetto quando mi pare.
Bruno:  Ed è andata così?
Freccia: No, mi sa che non va mai così. Io, almeno, dopo un paio
             di volte c’ero dentro.
Bruno:   Cioè?
Freccia: (un po’ secco) Cioè… cioè devi rubare hai capito? Perché
              non te la regala nessuno, capito?                Comunque
              dopo un po’ smette anche di darti piacere. Però stai male
              se non ti buchi, allora  ti fai solo per essere normale. Comunque alla fine diventa una cosa tra te e lei. Il resto non conta più un cazzo.
Bruno:    Come sei riuscito a smettere?
Freccia:  Cagandomi addosso.    Cagandomi addosso, con lo
              stomaco che mi si spaccava e il cuore a mille. Gran botte
              di caldo e poi di freddo e una paura bestia di morire di  
             dolore. Ho passato dieci giorni in un letto che continuavo a
             sporcare e che una persona continuava a   pulire. Se non
             era per lei sicuramente non ne venivo fuori.
             Però sai, non so se posso dire di avere proprio smesso.
             Cioè, sì! Da qualche mese non mi faccio più però forse è
             meglio se non ci penso troppo.
Bruno:  E adesso pensi che valesse la pena chiedersi quel
            “perché no?” la sera che hai fatto il primo buco?
Freccia: Questa è una domanda del cazzo.
Bruno: E allora su questa domanda del cazzo chiudiamo “Ora
            d’aria”. Stanotte abbiamo parlato di buchi. O meglio dei
            buchi che si è fatto uno. Non sappiamo se è così per tutti
            ma adesso, forse, ne sappiamo un po’ di più. Buonanotte.


 (Brani tratti da: “Antonio Leotti – Luciano Ligabue: “Radiofreccia”, Fandango Libri, 1999, pgg. 117, 118, 121)



sabato 2 aprile 2016

Il principe dorme qui

Era scritto proprio così su una mattonella decorativa di ceramica esposta nella vetrina di un negozio di souvenir di una località umbra: "Il principe dorme qui". Il tutto arricchito dall'immagine di un bambino immerso nel sonno. Destinata, presumo, la mattonella in questione, ad essere appesa all'esterno della porta della camera del "principe".
Povero principe, adorato, coccolato, ossequiato come una divinità, ancora prima di emettere il suo primo vagito. E, crescendo, ancora più coccolato e accusato, lui che mai ha imposto ad altri di essere in tal modo trattato, di tirannia. 
"In casa ormai comanda lui." affermano, quasi con orgoglio, quella madre, quel padre, quei nonni che al solo pensiero di doverlo accogliere nella loro casa, si sono resi schiavi del pargolo altrimenti detto "principe".
Così crescendo, il pargolo si è convinto che tutto gli sia dovuto. E, abituato ad avere tutto, egocentrico già di natura, non ha fatto altro che soddisfare il suo egocentrismo ritenendo che il mondo fosse ai suoi piedi. In fondo, gli adulti, con il loro comportamento, non hanno fatto altro che confermargli che sì, tutto gli era davvero dovuto.
A che serve dunque, cari genitori, lamentarsi ora che il frugoletto non è più tale ma è rimasto un vero tiranno? Chi gli ha insegnato che era un principe?

domenica 14 febbraio 2016

Ciò che non si poteva dire

A Taranto, come recita la mia carta d'identità, ci sono nata.
Vi ho vissuto poco, per fortuna, portata via già a due mesi in Liguria e poi tornata, durante l'adolescenza, in Puglia, sì, ma in quella Brindisi che attualmente vive il disagio di una città i cui amministratori comunali si sono dimessi in massa in seguito all'arresto del primo cittadino.
A Taranto, da bambina, tornavo d'estate e, da un po' di anni, a volte, solo d'inverno, un paio di giorni, in occasione delle vacanze natalizie o, come accaduto recentemente, delle vacanze di Carnevale.
Non ho mai amato Taranto. Mai. Ho sempre respirato a fatica la sua aria infetta, pesante, che lasciava, lo ricordo bene, un tappeto di polvere nera sul balcone della casa di mia nonna, dove sono nata e dove trascorrevo, a volte, le mie vacanze estive.
Erano gli anni '60 - '70.
Nel frattempo l'aria diventava sempre più irrespirabile. Un numero sempre maggiore di residenti (anche tra i miei parenti) si ammalava. Moriva.
Ma Taranto accettava. L'Italsider (come molti, fino a qualche tempo fa continuavano a chiamare l'attuale Ilva) dava lavoro ai tarantini della città e della provincia. Di fronte al lavoro si chiudeva un occhio. Anche due. Si ricorreva all'amico sindacalista, al parroco, a chi poteva garantire un'assunzione. Il sistema clientelare si autoalimentava creando l'illusione del benessere.
Certo, molti degli attuali lavoratori Ilva sono anche capaci e sono stati assunti per merito. Ma anche no.
Poi è accaduto qualcosa. E ho ammirato, spudoratamente, Patrizia Todisco, il magistrato che, finalmente, dopo cinquant'anni, ha sollevato il caso Ilva. Perché, da quel momento, si è cominciato a parlare di ciò che, almeno a Taranto, tutti sapevano ma nessuno aveva voglia di raccontare e raccontarsi.
Perché certe cose non si possono (e/o non si vogliono) dire.

mercoledì 3 febbraio 2016

Uteri in affitto

Un tempo, quando le tecnologie non erano così sviluppate, le coppie che desideravano un figlio ma non riuscivano ad averne ricorrevano a una modalità che si potrebbe definire "utero in affitto" ante litteram, per quanto, più che di utero in affitto sarebbe più opportuno parlare di "coppia fecondante al servizio di coppia sterile".
La pratica, abbastanza diffusa anche se non sempre esplicitamente ammessa, consisteva nel generare, gratuitamente, s'intende, un figlio destinato a una coppia sterile che sarebbe diventata la coppia genitoriale del feto appositamente messo in cantiere. Solitamente uno dei membri della coppia sterile era un fratello o una sorella della coppia fertile, tanto fertile da potersi permettere una ricca prole da destinare poi ai meno fortunati.

giovedì 21 gennaio 2016

"Chissà se mi ritroverai"

Suonavano le note di questa canzone mentre la loro storia, iniziata poco meno di due mesi prima, finiva. Sembrava una storia importante così come appaiono, nell'entusiasmo dell'innamoramento adolescenziale, tutte le storie. O, almeno, lei credeva che fosse una storia importante.

Invece erano troppo diversi: per lei l'impegno veniva prima di ogni cosa. L'impegno verso ogni sua attività: prendeva tutto sul serio. Lui invece era più leggero, meno integralista, più possibilista. Continuarono a restare amici, tuttavia, per qualche tempo. Lui l'accompagnò, il pomeriggio del 31 dicembre di qualche anno dopo, in riva al mare, a distruggere, con un falò, i  tre diari-agenda su cui lei si era raccontata la sua vita degli ultimi tre anni. Un gesto simbolico per voltare pagina.

Del resto, anche lui continuava a raccomandarle di volersi più bene ed essere ancora più esigente con gli altri, piuttosto che con se stessa, di quanto già non lo fosse.

Dopo quella volta si videro solo sporadicamente e poi si persero di vista.





“Chissà se mi ritroverai” Gianni Togni (1980)


Amore com’era facile da dire
amore da solo non sapevo mai che fare
quando ogni giorno
aveva il tuo nome

Amore cercare sempre di cambiare insieme
amore chiedersi tutto senza aver pudore
ci siamo persi tra la gente
di te non so più niente

Chissà se mi ritroverai
ed io saprò farti capire
cosa sei stata amore
in qualche piccola stazione
in qualche posto senza cuore
con l’aria di chi sta lì per errore
chissà se mi troverai

Amore era la cosa più normale
amore e mi domando adesso che rimane
di quelle notti
delle nostre parole

Amore la realtà non mi fa più paura
amore nella mia testa non c’è confusione
niente da perdonare
né da dimenticare

Chissà se mi ritroverai
così per caso sulla strada
che strana questa vita
in una sera come tante
in un’estate già finita
di me allora che penserai
chissà se mi ritroverai

Chissà se mi ritroverai
se parleremo un po’ di noi
come buoni amici
in qualche piccola città
nascosti dentro qualche bar
con le tue incertezze con la mia età
chissà se mi ritroverai

(Già pubblicato su altra piattaforma l'11 maggio 2010)

domenica 10 gennaio 2016

Vestita da donna

Ornella era la più brava della classe. I suoi compagni la stimavano, la rispettavano, la coccolavano non solo perché, con generosità, era sempre pronta ad aiutarli nello studio, spiegando loro ciò che non avevano capito durante le lezioni, ma anche perché, in quella classe composta da 25 studenti, era l'unica ragazza.
Una ragazza che frequentava, brillantemente, un Istituto Tecnico ad indirizzo "Elettronica e Telecomunicazioni". Rare le ragazze, in quel tipo di corso. Guardate con scetticismo, soprattutto dai docenti delle discipline tecniche e professionali, ingegneri di sesso maschile convinti della naturale inferiorità della donna.
Ornella, grazie alle sue capacità intellettive, era riuscita a convincere anche loro che, a volte, qualche eccezione può esistere.
Gli ottimi voti ottenuti se li era guadagnati studiando, senza ammiccamenti femminili o gambe e seni scoperti.
Il suo abbigliamento era rigorosamente unisex, nessuna concessione a fronzoli od altro.
Mantenne lo stesso stile per tutti i cinque anni di scuola.
Solo il giorno del colloquio orale degli esami di maturità, arrivò a scuola "vestita da donna".
Le disse proprio così il commissario interno, il professore di Sistemi, vedendola con il lungo abito estivo (una specie di tunica) che lei, quel giorno, aveva indossato.
"Cosa hai fatto, ti sei vestita da donna?"

Ornella arrossì, rispose con un sorriso garbato e, arrivato il suo turno, si sedette e mostrò alla commissione che, anche vestita da donna, aveva un cervello che funzionava. Come, anzi, meglio di quello dei tanti uomini che la circondavano.
(Già pubblicato sul blog "La panchina in cima al monte")

Mauro per sempre

Fino alla fine, continuarono a sperare nella sua guarigione. Ci credevano davvero, forse spinti anche dalla forza e dal coraggio di quella giovane madre. Una vera madre. Capace di piangere e disperarsi, ma non davanti a lui. Perché lui non doveva sapere quanto grave fosse la sua malattia. Lui doveva vivere come tutti i suoi compagni, libero di continuare a fare progetti per il futuro, come tutti i sedicenni fanno.

Sì, i suoi insegnanti credevano davvero che ce l'avrebbe fatta. E quando vennero informati che non sarebbe andata così, attoniti continuarono a mantenere quel segreto terribile. Mauro non doveva sapere. I suoi compagni non dovevano sapere.

Così, quel terribile dolore poté essere rivelato a tutti solo in quell'assolato giorno di giugno, il 20 giugno 2007, quando Mauro se ne andò. Ma non li lasciò soli. Era con tutti coloro che lo avevano amato e non lo avrebbero dimenticato.

Vivo nei loro cuori. Per sempre.


"Non muore chi rimane

vivo nel nostro cuore"


"Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura

che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,

da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,

da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,

non voglio che muoia la mia eredità di gioia,

non bussare al mio petto, sono assente.

Vivi nella mia assenza come in una casa.

E' una casa sì grande l'assenza

che entrerai in essa attraverso i muri

e appenderai i quadri nell'aria.

E' una casa sì trasparente l'assenza

che senza vita io ti vedrò vivere

e se soffri, amor mio, morirò nuovamente."

(Pablo Neruda: "Sonetto XCIV" da "Cento sonetti d'amore - Notte")

mercoledì 6 gennaio 2016

Parliamo?

Adorano parlare, i miei studenti.
E non lo fanno, come affermano i colleghi più maligni, per perdere tempo ed evitare di far lezione o un'interrogazione.
Sono pieni di dubbi e vogliono capire: il senso della vita, dell'amicizia, dell'amore...
"Perché?" chiedono spesso, sperando che io possa dar loro la risposta giusta.
E io, di fronte alle loro domande che io stessa mi pongo e che da sempre l'essere umano si pone, non posso fare altro che ascoltare e lasciarli parlare. Confrontandosi, parlando, hanno l'occasione di scoprire che l'ansia, l'angoscia, i dubbi che ciascuno di loro prova sono gli stessi che ciascuno di noi ha provato e prova.
Ecco perché parlarne ci fa bene.
(Già pubblicato con altro account su altro blog e su altra piattaforma il 16 marzo 2009)

domenica 3 gennaio 2016

Per sempre

Giura che lo ama. Che resteranno insieme per sempre. Che da quando lo ha incontrato, la sua vita ha avuto, finalmente, un senso.
Hanno festeggiato il loro anniversario con un video pubblicato su un social network, affinché tutti sapessero dell'importanza del loro amore.
Ho sorriso e ho provato tenerezza e timore guardando quel video. Loro hanno 16 anni.
Io quasi 55.
E ho imparato che gli amori giovanili spesso svaniscono, con la stessa immediatezza con cui sono nati.
(Già pubblicato sul blog "Sala Docenti")

La 500 gialla

La 500 gialla è stata l'auto dei miei vent'anni. Non

era la mia (non mi è mai piaciuto guidare e all'epoca

non avevo nemmeno la patente), era la macchina

della madre del mio amico più caro che, appena ne

 aveva la possibilità, ne usufruiva.

La 500 gialla aveva infinite possibilità, riusciva a

contenere fino a sei-sette persone, schiacciate come

sardine, d'accordo, ma era sempre meglio di niente.

Per andare al mare, tentare di vedere l'alba il primo 

giorno dell'anno, raggiungere il palazzetto dello sport 

per assistere alle partite della locale squadra di

basket, effettuare testa-coda magistralmente 

calcolati e altre imprese varie su cui sorvolerò, non 

c'era niente di meglio dell'indimenticabile 500 gialla.

sabato 2 gennaio 2016

Capodanno

Il primo giorno dell'anno trascorso in una località del cuore, a passeggiare sotto un sole caldo benché sia gennaio, a leggere un romanzo accattivante, chiacchierando con chi più ci sta a cuore. Che altro si può desiderare?

https://www.youtube.com/watch?v=tO7NfLC-ydI